Macerie, ovunque. Due ciminiere ancora inerpicate sull’orizzonte, simbolo di un’epoca andata in frantumi tra ruberie e fallimenti, sogni e imbrogli collettivi. Licenziamenti e fughe, come si addice a gran parte di quelle storie industriali che hanno maledettamente segnato la storia moderna dell’Isola. Terra di conquista, dove l’affare privato diventa saccheggio, trasformandosi in devastazione ambientale e degrado. Da quasi trent’anni i cumuli della vecchia cartiera di Arbatax, nell’enclave portuale di Tortolì, sono zona franca, non quella fiscale e agognata. Nel senso che si può tutto, dove chi comanda “aleggia”, ma non si vede, dove chi controlla si confonde con chi devasta. Un grande “buco nero” nel cuore di un’oasi sempre più turistica dove brulicano resort dal prestigio mondiale, con un’economia turistica che incede, seppur tra mille difficoltà.

Dagli alberi alle pale

Gli edifici che un tempo trasformavano alberi in carta non ci sono più, la maggior parte sono caduti sotto i fendenti di mezzi pesanti pagati per tentare di restituire quell’area allo sviluppo. Niente da fare, l’unica intrapresa sembra quella riservata a beni pubblici lasciati alla mercé di chiunque: trasformarli in discarica, luogo dove nascondere, occultare, scaricare i rifiuti delle proprie attività dentro un’area sino a prova contraria collettiva. Giusto per non pagare i costi, il più delle volte imponenti, di dismissioni protese ad incrementare i propri guadagni scaricando sulla collettività l’onere di smaltimento. Varcare dal cielo quella “zona franca” è come entrare in un set cinematografico post bellico, dove ovunque ti segnalano pericoli imminenti. Cartelli consunti dal tempo, resi illeggibili dal sole d’Ogliastra, costellano l’avanzare dell’obiettivo su quel disastro trasformato per “grazia ricevuta” in discarica eolica in terra sarda.

Funziona così

Perchè funziona esattamente così in questa “colonia” saccheggiata da mare e da terra: devastano i territori con pale eoliche piazzate nei luoghi più esclusivi dell’Isola, dopo qualche anno le smontano per farle più grandi e guadagnare di più, e, per non spendere niente per lo smaltimento di quelle vecchie, cercano un “refugium peccatorum” dove nascondere tutto ai “ficcanaso” di turno. Qui l’hanno trovato. Apparentemente lontano da occhi indiscreti, urbanisticamente ancora zona industriale, di fatto un cumulo di degrado precluso all’esterno. Da oggi ufficialmente “cimitero sardo dell’eolico”, quello delle “incallite” multinazionali venute in Sardegna a far vento e soldi, spargendo rifiuti e devastazione. Quando l’ombra delle ciminiere si infrange su quel “mare” di pale eoliche riverse a terra, esauste dopo aver affettato per anni l’aria dei Tacchi d’Ogliastra, capisci che non c’è bisogno di alcun epitaffio ad effetto: qui giacciono i “parchi” eolici delle brochure patinate, spacciati per un “ben di Dio”, accatastati come in una discarica senza tempo, nel più imponente sfregio industriale sulla costa Orientale dell’Isola. Una distesa infinita di eliche giganti, sostituite tra le vette di Ulassai e dintorni, poco prima che il Covid stravolgesse la vita dei sardi. Una catasta di pale eoliche che diventa un’onda bianco rossa tra quei fabbricati “azzannati” da martelli pneumatici d’alta quota. Vedere quel “ciclone eolico” riverso a terra toglie il fiato al solo pensiero che chi ha fatto soldi a palate, macinando vento di Sardegna, non abbia avuto in tanti anni la “buona creanza” di smaltire, come si deve, quei ruderi di vetroresina e acciaio allineati in fila indiana a segnare la fine del primo assalto delle multinazionali alle vette dell’Isola.

Degrado & degrado

In un primo tempo hanno persino fatto finta di portarle via, come si conviene ad una “fabbrica” di vento e incentivi. Per anni, con silenzio e complicità diffuse, le hanno tenute stoccate sulla banchina del porto, occupando senza pudore suolo pubblico e aree di manovra. Quando le prime immagini hanno cominciato a sollevare il dubbio che, da stoccaggio provvisorio per la partenza via nave, si stesse trasformando quella banchina in discarica portuale, si è deciso di “ordinare”, non si sa a chi e con quale provvedimento, di liberare l’area.

Di chi sono

Un affronto per i “potentati” del vento costretti a “sloggiare” da un porto che in fin dei conti pensavano di occupare in eterno a loro uso e consumo. Alla fine, però, una soluzione l’hanno trovata, a due passi: trasportare e stipare tutto all’interno dell’area vietata della Cartiera di Arbatax. Del resto, si saranno detti, quel vecchio “mausoleo” industriale resterà per sempre emblema di degrado, aggiungerci le “nostre” pale dismesse sarà un di più di cui nessuno si accorgerà. In un attimo la vecchia Cartiera, di proprietà della Regione, è diventata il più grande “cimitero eolico” dell’Isola, con la prova immortalata di come si smantellano queste “ciminiere” del vento, destinate ad incrementare discariche eoliche senza tempo. Hanno tolto ogni impronta digitale per ricondurle al proprietario: si sa solo che ognuna di esse ha una lunghezza di 39 metri, la stessa delle vecchie pale del Parco della “Sardaeolica” a Ulassai, il braccio del vento della petrolifera “Saras”. Tutte turbine sostituite nel 2019 per far spazio a pale più lunghe, 44 metri, “allungate” per guadagnare più soldi. Peccato, però, che in quel progetto non ci fosse traccia dello smaltimento delle vecchie “affettatrici” del cielo. Il “miracolo” delle pale alla fine si è compiuto: Cartiera di Arbatax, “cimitero” eolico delle multinazionali in terra di Sardegna.

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