Il 28 febbraio 1943 è una domenica primaverile, a Cagliari; nella zona di via Roma tante persone passeggiano all’uscita dalla messa. Tra queste, Giampaolo Dessì, che all’epoca aveva 10 anni. “Mia madre stava preparando il pranzo, una pasta tipo pennine, che erano nere, di crusca, perché in tempo di guerra non c’era la farina bianca. All’improvviso, intorno a mezzogiorno, sulla nostra città cominciano a ‘piovere’ le bombe: siamo scappati in tutta fretta al rifugio che si trovava a 500 metri da casa nostra. Decine gli ordigni sganciati in tre ondate dagli aerei, che come sono venuti se ne sono andati”.

Il ricordo è nitido, per Giampaolo Dessì, classe 1933, che ricorda come fosse ieri quei giorni terribili. “Una volta rientrati nella nostra abitazione, quelle nella pentola non erano più pennine, ma si erano più che raddoppiate, e mia madre – racconta con un sorriso a l’Unione Sarda – commentò con un ‘meglio così, almeno ce n’è di più per tutti”. Per non perdere tempo al momento dell’allarme, c’era l’abitudine alla sera di andare a letto vestiti, “ma senza scarpe. E se l’emergenza scattava quando era già buio chiedevo a mia madre: ‘Che ore sono?’, perché se succedeva dopo mezzanotte, il giorno dopo a scuola si entrava più tardi”.

In famiglia erano padre, madre e tre figli: “Tre giorni dopo siamo sfollati; abbiamo preso qualche bagaglio di fortuna e portato le valigie sulla schiena; in treno abbiamo raggiunto Abbasanta e poi Norbello. I miei genitori chiedevano di poter avere una casa e quindi erano andati dal segretario politico fascista. Alla fine abbiamo trovato ospitalità da una signora che, come vide mia madre, disse di non volere una donna ‘pintada’”. In che senso? “Col rossetto. Figuriamoci in un paese quanto poteva essere incomprensibile la moda cittadina. Comunque lì siamo rimasti un anno e, nonostante il primo sentimento di avversione, i proprietari di quell’abitazione sono diventati per me ‘nonno’ e ‘nonna’”.

Era il periodo di Carnevale, “e la signora faceva le zeppole usando l’imbuto, quindi di grandi dimensioni; noi bambini sgranavamo gli occhi, non le avevamo mai viste prima”. A Norbello c’erano solo due apparecchi radio, “il nostro e quello di un prete. Da noi venivano i contadini, alla fine del lavoro nelle campagne, intorno alle 17, e chiedevano a mia madre: ‘Signora Rita, ce la fate sentire la radio?’, lei si metteva alla finestra e insieme ascoltavano il bollettino di guerra”.

La scuola era poi un altro capitolo: “Il riscaldamento non c’era, si andava con una specie di barattolo di conserva con dentro la brace e la cenere, la agitavi e ti scaldavi. Il sabato invece c’era la giornata fascista: Mussolini aveva abolito i boy scout e noi dovevamo indossare la divisa, eravamo bambini militarizzati, ci facevano marciare per instradarci alla guerra”.

Il pensiero non può non andare ai tanti bimbi ucraini che oggi fanno i conti con la grande paura che vedono nei genitori, con gli allarmi che risuonano nelle loro città, le fughe nei rifugi, la vita che prende un altro ritmo, scandito da quelle sirene. Come a Cagliari, 79 anni fa, era stato per Giampaolo.

La scheggia\u00A0di una delle 12 bombe da 250 kg,\u00A0carico di ognuna delle 46 superfortezze che hanno bombardato Cagliari (foto concessa)
La scheggia\u00A0di una delle 12 bombe da 250 kg,\u00A0carico di ognuna delle 46 superfortezze che hanno bombardato Cagliari (foto concessa)
La scheggia di una delle 12 bombe da 250 kg, carico di ognuna delle 46 superfortezze che hanno bombardato Cagliari (foto concessa)

Di quel giorno del 28 febbraio 1943, conserva “una scheggia di una delle 12 bombe da 250 kg, il carico di ognuna delle 46 superfortezze che hanno bombardato Cagliari. Alle 13,30 il massacro era già concluso”. Da febbraio a giugno i bombardamenti si sono ripetuti più volte, distruggendo la città e facendo centinaia e centinaia di vittime, senza considerare i dispersi che non sono mai stati ritrovati.

Ma a quanto pare la storia non ha insegnato nulla. 

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