Lo hanno attaccato da ogni lato. A venticinque anni gli hanno scaricato sulle spalle una responsabilità gravosa come una montagna: salvare la stagione di una squadra milionario. Il destino si è divertito a punzecchiarlo, privandolo dei compagni più importanti; la sorte lo ha sbattuto per terra e ferito. Hanno tentato di mettergli contro i gregari, di togliergli le certezze, la fiducia nel suo clan. Hanno provato a farlo affogare nel rimpianto per errori forse neppure commessi. Lo hanno processato assieme all’Astana ancor prima che commettesse alcun reato.

Fabio Aru ha vinto la Vuelta a España.

Più forte di tutto e di tutti, aggrappato alle proprie convinzioni, a un carattere d’acciaio, a una preparazione fisica e mentale a prova di bomba, non si è mai arreso. Si è innervosito, si è chiuso in se stesso, si è morsicato la lingua per non esaltarsi né rispondere alle provocazioni della strada e di qualcuno dei rivali dal tweet facile. Poi è salito in bici e ha fatto vedere ciò che sa fare. Vincere.

L’Italia si è innamorata di un campione pulito e solido, genuino nella testa e nel fisico, radicato nei valori, forgiato dal sacrificio e dalla convinzione che mai niente è né sarà facile nel mestiere che ha il privilegio di fare.

La Sardegna lo espone come propria bandiera. Il “Cavaliere dei 4 mori”, con il suo caschetto bianco con la bandiera sarda, si prepara a portare l’Isola sul trono di Madrid. Mai così in alto, mai così orgogliosa.
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