F ino ad ora abbiamo tradizionalmente concentrato l’attenzione sugli ospedali sia perché rappresentano la maggior concentrazione di “potere” sanitario sia perché storicamente continuiamo a vedere gli ospedali come il fulcro delle attività sanitarie. Adesso scopriamo, un po’ in ritardo, che la nostra società è terribilmente indietro sul versante opposto, quello territoriale, che rappresenta oggi il futuro dei servizi assistenziali. Il progressivo e oramai precipitoso diminuire della natalità da un lato e l’allungamento della vita media dall’altro pongono alla collettività un problema drammatico.

E lo è sia sotto l’aspetto sociale che sotto quello economico. Si tratta di qualcosa che ricorda l’andamento della piramide della vita dopo la prima guerra mondiale, quando 650.000 morti concentrati nelle classi giovanili produssero un repentino invecchiamento della popolazione. In quel caso le cause cessarono con la fine della guerra e il fenomeno si rivelò del tutto transitorio, oggi è qui per rimanere e dobbiamo lavorarci. Non faccio cifre ma è chiaro che il numero degli anziani è destinato a crescere e con esso il tema delle cronicità e, anche se in parte esula dal discorso sanitario, quello della solitudine sociale. Questo porta ad un ribaltamento del paradigma assistenziale per cui siamo costretti dai fatti a “rovesciare” il nostro SSR, portando in primo piano i servizi territoriali. Già la legge regionale numero 23 del 2014 aveva iniziato a spostare l’asse sul territorio (case della salute e ospedali di comunità), scelta poi ribadita dalla 24 del 2020. Le risorse provenienti dal Pnrr ci assicurano la dotazione finanziaria necessaria per cui bisogna solo procedere all’infrastrutturazione del sistema fino ai centri più piccoli e ci vorranno cinque o sei anni, tempo nel quale si può prevedere di colmare in parte i vuoti negli organici del personale a mano a mano che il sistema formativo lo consentirà.

Ma è nella nostra testa che dobbiamo fa arrivare la rivoluzione, dobbiamo pensare il percorso di salute di ogni cittadino come una linea di base che egli percorre lungo la sua vita e dove trova, momento per momento, tutte le prestazioni che gli servono, anche quelle ospedaliere. Ma, in linea teorica, non dovrebbe andare in ospedale, se non per traumi, tutto il complesso delle prestazioni che il SSR gli offre dovrebbe evitargli l’insorgere di acuzie che necessitino di ospedali.

Pensateci un poco, il percorso ideale vede il cittadino nascere protetto dalla medicina materno infantile, proseguire con i servizi di prevenzion inclusi quelli di vaccinazione, che lo proteggono dalle malattie infettive, cui subentrano poi pediatra e medico di famiglia, con specialisti e medicina strumentale quando è il caso. Poco visibili ma non meno importanti i servizi di veterinari, quelli di Igiene Pubblica e degli Alimenti, insomma quelle attività di cui ci si accorge solo quando funzionano male, ma ai quali dobbiamo la possibilità – per esempio- di poter andare al mercato o al ristorante con tutta tranquillità.

In questa visione l’ospedale rappresenta quindi solo i punti di criticità, c’è qualcosa di sbagliato nel sistema se non riesce a prevenire il ricorso all’ospedale, che rappresenta la fuoriuscita dal percorso di base di cui ho parlato prima. Ecco perché è difficile parlare solo di rete ospedaliera o di territorio come pezzi separati, voi pagate le tasse e con quelle tasse comprate un servizio unitario, come quando comprate un’auto non vi interessano gli sportelli o gli iniettori in quanto tali, vi interessano solo come componenti di un unico sistema (l’auto, appunto) che deve funzionare nel suo complesso. Oggi sappiamo, e l’esperie nza del Covid ce lo ha confermato pienamente, che il SSR è assolutamente un tutt’uno, dal punto di vista della filosofia del progetto di salute non può essere scisso in componenti differenti. Questo è il futuro e a questo bisogna lavorare con impegno e determinazione. E in fretta.

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