Insegnanti o vigilanti? È la domanda che scuote il mondo della scuola dopo il caso di una docente di scuola primaria di Nuoro, affetta da sclerosi multipla e costretta a muoversi con deambulatore e carrozzina. Dopo aver insegnato per tutto l’anno, è stata dichiarata inidonea alla sorveglianza attiva (non all’insegnamento) dalla commissione medico-collegiale dell’Inps. Il risultato? Allontanata dalla classe, trasferita in biblioteca con un aggravio di ore settimanali – da 24 a 36 – in quella che pare una misura punitiva. Una decisione che non solo la esclude dall’insegnamento, ma, sottolinea lei, «lede il diritto al lavoro, alla cura e alla dignità». La docente, preparata, amata dagli alunni, è costretta a difendersi non dalla malattia ma da un sistema che, di fronte alle difficoltà, si mostra più pronto a escludere che a includere.

L’associazione

A sostenerla l’Aism (Associazione sclerosi multipla), che ha deciso di affiancare l’insegnante. «Il suo caso – dice Liliana Meini – rappresenta una grave limitazione alla dignità della persona e del lavoratore. Oggi (ieri ndr) si è rivolta alla nostra associazione per una consulenza». L’insegnante non si è mai sottratta al suo lavoro. Nonostante la malattia ha sempre insegnato con dedizione. Anche quest’anno ha coperto supplenze, portato avanti progetti didattici, accompagnato i suoi alunni fino alla fine dell’anno. Eppure, il 5 marzo è stata convocata per una visita fiscale, fissata a maggio. Una settimana fa la doccia fredda: la commissione la giudica inidonea “alla vigilanza attiva”. «Se davvero ero inidonea, perché mi hanno fatto insegnare tutto l’anno? E perché ora mi spediscono in biblioteca facendomi lavorare di più?».

Vogliono solo sorveglianti

Il verbale parla di “inidoneità alla vigilanza attiva”. Ma cosa significa, concretamente, “vigilanza attiva”? Lei lo contesta: «In aula garantivo la presenza, la relazione educativa, la didattica. Quella che era una storia di scuola inclusiva si sta trasformando nel suo contrario. Vogliono sorveglianti, non insegnanti». La sua carrozzina le consente di muoversi in aula. Parla con lucidità e fermezza: «Mi sono sempre battuta per l’inclusione, per i bambini con disabilità, per una scuola che accolga tutti. Ma ora mi ritrovo esclusa proprio io. La scuola è comunità, non solo controllo. E se la società vuole essere inclusiva, deve cominciare da chi educa». Oggi è costretta a difendere un diritto: quello a lavorare. E non per sé. Perché così, pezzo dopo pezzo l’insegnamento, sarà off limits per chiunque è in carrozzella e non può «vigilare attivamente».

Fabio Ledda

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