È sceso giù, dritto fino all’inferno, ma poi è risalito. «Franco è forte e ce la farà», aveva sempre ripetuto la moglie Desirée Puddu, anche nei momenti più duri. E Franco Labagnara. il barista 48enne pestato a sangue da due ragazzi per una precedenza lo scorso ottobre in via Brigata Sassari, alla fine ce l’ha fatta. Adesso è qui, ancora un po’ malconcio, nel bar che gestisce con il fratello Marcello in viale Marconi dove è voluto tornare dopo tre mesi di coma e tre di riabilitazione. «Io sono quello senza la via di mezzo», dice, «mi sono addormentato che stavo benissimo e mi sono risvegliato che stavo malissimo».

Nessun ricordo

Quello che gli hanno fatto, gliel’hanno raccontato. Lui non se lo ricorda «dire che provo odio per chi mi ha ridotto così, è riduttivo. Spero solo che sia fatta giustizia». La voce è ancora malferma «sto facendo tutti i giorni gli esercizi per rimparare a parlare alla perfezione», e a dare problemi sono ancora una mano e un piede, «non riesco ancora a stringere bene le cose e a poggiare bene il piede a terra, ma piano piano passerà anche questa». D’altronde è niente rispetto a quello che ha passato, alla morte che un giorno all’improvviso, sembrava venuta a prenderselo. «Dopo tre mesi di coma all’oncologico a Cagliari» ricorda, «sono stato trasferito a Oristano, come mi hanno raccontato mia moglie e mio fratello. Anche lì sono stato un altro mese in coma».

Franco Labagnara nel suo bar con i tanti amici andati a trovarlo (g. da.)

Il ritorno alla vita

Poi il risveglio. «Vedevo gente che andava e veniva e non capivo dove fossi. C’erano medici e infermieri e non ero a casa mia, non ero a Quartu. In quei momenti ero ancora molto confuso». Le botte in via Brigata Sassari, la paura, le grida della moglie chiusa in auto glielo racconteranno solo dopo. «Abbiamo aspettato» interviene il fratello Marcello, «così come ci avevano consigliato i medici. Quando poi è arrivato il momento gli abbiamo raccontato tutto». E così, prosegue Franco, «ho saputo e non volevo crederci. Sono rimasto scioccato, era come se mi stessero raccontando una cosa successa ad altri. Come si può ridurre una persona in questo stato?». Quei momenti nella sua mente non ci sono più. Il dolore li ha cancellati.

Le prime parole

«Il primo ricordo che ho in ospedale a Oristano è quando ho visto mia moglie e le ho detto “ciao tesoro”. L’ultimo, un messaggio del 14 ottobre, una decina di giorni prima dell’aggressione, di alcuni miei amici che mi avevano mandato un video di un pranzo». Adesso «faccio fatica a dormire bene. Certe volte sogno mio papà, che non c’è più, che mi chiede come sto. E poi sogno il mio amico Maurizio che viene al bar a raccontarmi quello che mi è successo». Il giorno dopo il ritorno da Oristano, il 17 aprile, «sono voluto andare subito al bar, che è la mia seconda casa. E spero di poter tornare presto a lavorare per aiutare mio fratello, che in tutti questi mesi ha dovuto fare tutto da solo».

L’amore per la moglie

Franco parla seduto al tavolino del suo bar, circondato da tanti amici che vengono a salutarlo e a dargli una pacca sulla spalla. Accanto a lui c’è sempre Desirée che in questa via crucis fatta di stazioni che sembravano insuperabili non lo ha mai lasciato. «Lo sapevo che ce l’avrebbe fatta» ribadisce lei, «quando mi ha detto “ciao tesoro” ho capito che il calvario sarebbe finito. Poi, ogni cosa ha il suo tempo e crediamo che sarà fatta giustizia». Nel frattempo Franco scalpita, «adesso spero che mi ridiano la patente per andare in giro, ovunque».

Giorgia Daga

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