Il lavoro è uno dei grandi problemi del presente e secondo molti rischia di esserlo ancora di più nel prossimo futuro. Preoccupano, infatti, i mutamenti sociali ed economici indotti dalla globalizzazione e la progressiva diffusione di robot e automi in ogni settore lavorativo. E aumenta la paura di avere minori possibilità di impiego con salari equi.

In mezzo a tanto pessimismo, il giornalista economico Walter Passerini, ideatore e per anni direttore del “Corriere Lavoro”, prova a sfatare i molti miti negativi che aleggiano oggi sul mondo dell’occupazione. Lo fa con "Tuttolavoro" (Giunti, 2017, euro 14, pp. 240. Anche Ebook), un pratico volumetto pensato appositamente per offrire spunti concreti, idee, consigli pratici e strategie così da poter far fronte alle sfide del mercato del lavoro contemporaneo. Una vera e propria guida, insomma, pensata per giovani, donne, over 50, dipendenti, professionisti in difficoltà e futuri imprenditori. Un vademecum per cercare e conquistare un posto al sole sul fronte occupazionale, cosa ancora totalmente fattibile secondo Passerini: "Dobbiamo prima di tutto sfatare un mito: non è vero che andiamo verso un’epoca di meno lavoro. Complessivamente oggi c’è più occupazione nel mondo, c’è più lavoro. Sta emergendo il lavoro nero in sempre più nazioni e anche in Occidente la rivoluzione in atto ci può preoccupare nell’immediato ma sul medio e lungo periodo porterà alla nascita di nuovi mestieri, di nuove attività e professioni".

Come sarà il lavoro di domani?

"Meno dipendente e più intraprendente. La nuova società industriale, che io chiamo neo-industriale, richiede un nuovo tipo di forza lavoro, più esecutiva. Quindi bisogna costruirsi un progetto professionale di tipo nuovo, specializzarsi di più, diventare più competenti".

Studiare e fare formazione serve ancora?

"Serve sempre di più. Magari sul breve periodo i diplomati trovano più facilmente lavoro; a medio-lungo termine emerge però chi ha una laurea, una specializzazione. Il mio consiglio è di studiare con ancora più impegno perché nel mondo del lavoro è in atto una 'guerra delle competenze'. Vale per gli individui, vale per le nazioni perché chi ha più brevetti, più invenzioni, più innovazione ha più chance degli altri".

E all’Italia è rimasta qualche chance?

"Non siamo messi così male come vuole la vulgata. Abbiamo delle produzioni industriali in cui siamo ancora i migliori in Europa o siamo comunque sul podio. Il problema è che l’Italia non è tutta uguale, vi sono aree dove le cose funzionano bene, altre molto depresse. La grande sfida dei prossimi anni è individuare su quali settori si vuole puntare per rimanere al passo con gli altri Paesi. In base a queste scelte si dovrà orientare l’università, il mondo delle imprese e anche i singoli individui che dovranno acquisire le competenze giuste per poter partecipare al mercato del lavoro del futuro".

Quali compiti devono svolgere il mondo della politica e le classi dirigenti in particolare?

"Le classi dirigenti, soprattutto quelle europee, hanno il compito di creare lavoro, di impostare le politiche industriali anche in funzione dei bisogni e delle peculiarità dei vari paesi. Tocca però anche i singoli individui mutare la loro mentalità per quanto riguarda il lavoro, anzi il non- lavoro".

In che senso?

"Nel senso che le persone devo imparare a muoversi soprattutto quando cercano il lavoro. Devono essere consapevoli, per esempio, che le cose stanno cambiando anche nel nostro Paese e che esistono le cosiddette politiche attive del lavoro. Da quest’anno chi cerca un’occupazione può avere un aiuto pubblico a trovare un lavoro grazia all’Anpal, l’Agenzia Nazionale Politiche attive del Lavoro. È la nuova cabina di regia che da aiuto economico ai disoccupati, ma soprattutto li aiuta a risolvere la loro situazione in coordinamento con le Regioni".

Fiducioso per il futuro?

"Sì, anche perché i giovani italiani sono più attrezzati dei quaranta–cinquantenni odierni ad affrontare il cambio culturale ed economico che stiamo vivendo. Sono più aperti, girano il mondo".

Non rischiamo la fuga di troppi “cervelli”?

"Il rischio esiste se sono più quelli che partono di quelli che arrivano, cioè se perdiamo le risorse migliori e non le sostituiamo. Il problema non è la fuga dei cervelli nostrani ma avere una capacità di attrarre a nostra volta i talenti internazionali. Senza saper attrarre talenti diventa veramente difficile competere e vincere le sfide del mercato del lavoro odierno e del prossimo futuro".

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