Un oggetto, un suono, un’immagine fanno riaffiorare alla mente ricordi sopiti, che innescano meccanismi di rielaborazione interiore profonda e intensa. Nove racconti per nove percorsi introspettivi nel cuore di personaggi che devono fare i conti con sogni infranti, sentimenti conflittuali e aspettative deluse. C’è spazio però anche per le speranze e per i desideri di rivalsa in chi impara, sulla propria pelle, la differenza tra vivere e sopravvivere. Giulia Lombardo, nata a Roma nel 1980, laureata in Lettere e Filosofia, attualmente impegnata nella ricerca educativa e già autrice di monologhi comici e drammatici, esordisce in libreria con “Te l’ho detto di notte”, pubblicato da Catartica (pp. 175, euro 15,50).

Una raccolta di racconti, caratterizzati da una prosa cadenzata sui respiri e i sospiri di chi affronta i fantasmi del passato e le nubi fosche del presente. Alti e bassi dei rapporti coniugali, relazioni nate come favole e diventate prigioni, separazioni fisiche o mentali che mettono in discussione anche i rapporti apparentemente più solidi. Perché oltre l’apparenza c’è la profondità del vero, di quella realtà che spesso si edulcora perché appaia più accettabile, ma che prima o poi esige un bilancio senza filtri. La narrazione procede per associazioni di idee e suggestioni che risultano estremamente evocative. L’io narrante si mette a nudo davanti a un lettore che ascolta in silenzio e non si sente mai di giudicare, perché il racconto è così sincero che sembra uno sfogo. Nel brano iniziale, che dá il titolo a tutta la raccolta, una figlia prova a prendere coscienza della morte di un padre spesso distante nei suoi silenzi, ma presente tanto da aver lasciato un vuoto immenso ora che non c’è più. Alma invece sente il peso di tutti gli anni vissuti e li vede riflessi nelle sue mani, ormai lente e doloranti, talvolta inaffidabili.

Avverte lo scherzo del destino: per una vita quelle stesse mani hanno riportato allo splendore originario opere che attendevano una nuova fase di bellezza. Faceva la restauratrice. Ora le osserva e scopre che non le ha mai usate per offrire una carezza dolce, come quelle che le dava sua madre. Anche per Elena, partita vent’anni prima dalla sua Romania, la madre é un punto di riferimento necessario. Soprattutto adesso che Eric, quel marito che sembrava perfetto e invece si è rivelato scostante e opprimente, assume un comportamento equilibrato solo quando c’è la suocera. Ecco perché Elena vorrebbe cambiare vita, lasciare quel quartiere romano troppo chic per loro, che lavorano per vivere e non possono permettersi lo stile di vita degli amici dei figli.

I temi si avvicendano, ruotando soprattutto intorno al concetto di famiglia e a quei genitori che dovrebbero rappresentare un punto di riferimento per i figli, ma che si rivelano per quello che sono: donne e uomini imperfetti e insicuri, che a loro volta vorrebbero ancora e per sempre un gesto d’affetto da chi avrebbe dovuto amarli incondizionatamente. Ancora il senso di colpa per avere scelto troppo spesso l’indifferenza, i rimpianti e i rimorsi per non aver detto e non aver fatto. La paura di aver compromesso rapporti importanti o di aver deciso delle vite altrui per sottrarsi alle proprie responsabilità. E quando sembra che il tempo abbia sepolto le esperienze più traumatiche, queste tornano richiamate da un episodio: la chiusura di una valigetta, la morte di un uomo abbandonato su una strada, il colloquio con un’insegnante, un vestito che perde colore. Sono luci abbaglianti che squarciano il buio dell’oblio, che rivelano la traccia indelebile di ciò che è stato.

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