In barba a ogni luogo comune, i messicani sono quelli che lavorano di più, mentre la Germania è in fondo alla graduatoria. Forse erano davvero clamorosamente fuori luogo le ironie che hanno accolto l’esortazione del cancelliere tedesco Merz, quando il 9 giugno 2025 ha dichiarato che i suoi connazionali dovrebbero “lavorare di più”. Secondo il capo del governo di Berlino, se l’economia tedesca sta rallentando, una delle ragioni è il numero insufficiente delle ore di lavoro, che lui vorrebbe riportare a 40 settimanali invertendo la tendenza alla riduzione consolidata negli ultimi decenni. “Con una settimana lavorativa di quattro giorni - ha aggiunto - e un equilibrio tra lavoro e vita privata, non saremo in grado di mantenere la prosperità di questo Paese”.

La statistica

Com’era facile prevedere, con queste affermazioni (fatte nel contesto di un discorso sulla sostenibilità del sistema pensionistico e la competitività economica) Friedrich Merz si è attirato una valanga di critiche. Eppure i dati ufficiali sembrerebbero dargli ragione. Stando alle statistiche pubblicate dall’Ocse, in Germania nel 2024 le ore lavorate pro capite sono state “appena” 1.331. La cifra più bassa tra i 38 Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, vale a dire gran parte dell’Ue con l’aggiunta di Usa, Regno Unito, Giappone, Canada, Australia, Corea del Sud, Svizzera, Turchia e pochi altri. La media è già molto più alta, con 1.736 ore in dodici mesi per ciascun lavoratore; ma come detto il record è del Messico, dove l’anno scorso sono state trascorse in ufficio o in fabbrica addirittura 2.193 ore. E negli anni precedenti erano ancora di più, benché talvolta inferiori a quelle della Colombia, i cui dati per il 2024 non sono ancora disponibili.

In questa classifica, Germania e Messico non rappresentano le sole stranezze. Per esempio, al secondo posto per numero di ore lavorate nell’anno c’è il Costa Rica con 2.149, seguito dal Cile con 1.919 e dalla Grecia con 1.898. Gli Stati Uniti si collocano poco sopra la media Ocse (1.796 ore), e l’Italia invece poco al di sotto (1.709); entrambi però staccano nettamente il Regno Unito (1.512). Altri dati sorprendenti (almeno alla luce dei pregiudizi diffusi) sono quelli dei Paesi scandinavi, campioni di efficienza e benessere: la Svezia non va oltre le 1.431 ore, la Norvegia si ferma a 1.407, la Danimarca addirittura a 1.379. I giapponesi tradiscono la loro fama di stakanovisti facendo registrare 1.617 ore di lavoro all’anno, molto meno della media, superati anche dalla Spagna con 1.634.

Insomma, la rilevazione mostra che i Paesi mediterranei, spesso accusati (a torto) di scarso impegno, risultano tra quelli con più ore lavorate. L’Italia, ad esempio, è ben sopra la Germania, nonostante un Pil pro capite inferiore e una produttività oraria più bassa. La Francia segue un modello simile a quello tedesco, con una settimana lavorativa di 35 ore e numerosi benefici sociali, che si riflettono in un monte ore contenuto (1.491) ma comunque più alto della Germania.

La spiegazione dei numeri

Se però si passa all’analisi dei numeri, anche le considerazioni possono cambiare. Nei risultati tedeschi, in particolare, gli economisti ravvisano una forte incidenza dei contratti part-time, molto diffusi (il 21% del totale contro il 15% medio), soprattutto tra le donne. Scelte spesso volontarie e legate a modelli di welfare che favoriscono la conciliazione tra vita privata e lavorativa. Merz, di fatto, ha lanciato un messaggio duplice: da un lato ha espresso un richiamo alla produttività e alla competitività economica della Germania, dall’altro ha rivolto una critica implicita a un certo modello di vita-lavoro che privilegia l’equilibrio rispetto alla massimizzazione della prestazione. Il suo ragionamento sembra però non tenere conto del fatto che, nonostante si lavori meno in termini assoluti, in Germania secondo Eurostat la produttività per ora lavorata è tra le più alte in Europa, e questo spiega perché il Pil pro capite sia tra i più elevati e l’economia tedesca resti una delle più forti del mondo.

Il cancelliere tedesco Friedrich Merz durante una conferenza stampa a Bruxelles

In cima alla classifica Ocse sulle ore annue lavorate troviamo molti Paesi in via di sviluppo o emergenti, dove la legislazione sul lavoro è più flessibile e le tutele sociali più deboli. Tuttavia, anche in nazioni ricche come gli Stati Uniti si lavora molto più che in Europa continentale, anche a causa di un sistema meno generoso in termini di ferie, maternità e previdenza. All’opposto troviamo i Paesi nordici, già citati, dove la qualità della vita e del lavoro è considerata tra le migliori al mondo. Qui l’efficienza del sistema e la digitalizzazione permettono di ridurre le ore lavorate senza sacrificare il benessere economico, che quindi non è direttamente proporzionale alle ore lavorate, ma dipende da un insieme di fattori: innovazione, organizzazione, capitale umano, redistribuzione. In Germania, nei Paesi Bassi, nei Paesi scandinavi e in Francia, ogni ora lavorata produce maggiore valore economico rispetto a quella di un lavoratore messicano o greco. In molti casi, quindi, lavorare di più non si traduce in maggiore ricchezza collettiva.

Anzi, nei Paesi con orari più brevi l’intensità lavorativa è spesso più alta, grazie anche all’uso efficiente della tecnologia, all’organizzazione del lavoro e a livelli di istruzione e formazione più elevati. L’invito del cancelliere Merz a “lavorare di più” può apparire legittimato dai dati, ma ignora i risultati raggiunti dal modello tedesco in termini di produttività, sostenibilità e benessere.

In definitiva, non esiste un unico modello valido: i Paesi che lavorano meno non sono necessariamente meno ricchi, quelli che lavorano di più non sono automaticamente più prosperi. La sfida per il futuro sarà trovare un equilibrio intelligente tra tempo di lavoro, qualità della vita e sostenibilità economica. Più che aumentare le ore, potrebbe essere necessario ripensare il modo in cui lavoriamo.

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