Dove non arriva il “telefono del vento” giunge “l’ufficio postale alla deriva”. In Giappone, estremo Oriente, dove le anime hanno una loro materialità apparente e i legami con chi è andato restano saldi nel tempo. E dove c’è un’isola nell’isola che si chiama Awashima, un piccolo scoglio sul mare di Seto che guarda a ovest, verso la Corea. Qui, in un punto dal quale è possibile contemplare le onde e l’orizzonte, dove il silenzio è di casa, c’è un piccolo edificio che da undici anni custodisce i sentimenti, i desideri, le richieste, i sogni, le speranze, in una parola: la vita di migliaia di persone. Di tutto il mondo. Donne e uomini che, spinti da qualcosa di inspiegabile (o forse spiegabilissimo), hanno preso carta e penna e scritto su un foglio una lettera.

Una missiva d’amore, un augurio di buon compleanno, una singola frase o una cartella intera per far sapere al figlio, alla madre, al padre, alla sorella, al fratello, al nonno e alla nonna, alla fidanzata e al fidanzato che non ci sono più cosa accade nella vita di chi è rimasto, che sentimenti si provano, che desideri si hanno. Confidenze, ammissioni, confessioni, preghiere, desideri. Una piccola casa dei sentimenti, un posto dove mantenere i contatti con qualcuno sognando che il destinatario riceva quel che è stato inviato.

Il telefono

Sogni e fantasie non hanno confini, non esistono steccati in grado di bloccarli. E nel Sol Levante lo sanno bene. Qui si trova il telefono del vento, in lingua giapponese “Kaze no Denwa”, una cabina old stile, bianca, i pannelli in vetro, l’apparecchio ancora con le rotelle, sistemata su una collina (nella città costiera di Otsuchi, ugualmente rivolta verso l’oceano) nella quale chiunque può entrare, afferrare la cornetta collegata col niente o forse col tutto, comporre un numero e parlare con i propri cari volati via per esprimere sentimenti che magari non si è riusciti a tirare fuori in precedenza, per protestare, contestare, raccontare, ricordare, sapere. Uno strumento finto ma terribilmente efficace nella testa di chiunque lo utilizzi. E sempre in questo Paese magico c’è l’ufficio postale alla deriva, deposito prezioso di lettere scritte da persone sconosciute ma leggibili da tutti. Per emozionarsi ritrovandosi nei contenuti, viaggiando in mondi paralleli e tanto irreali quanto esistenti.

Il telefono è nato nel 2010 su idea di un uomo che aveva perso il cugino e deciso di costruire nel proprio giardino un sistema per continuare a chiamarlo e parlarci. Un anno dopo, nel 2011, il terremoto e il conseguente tsunami che avevano causato quasi 20mila morti avevano spinto migliaia di persone che in quegli eventi avevano perso un familiare, un amico, un conoscente, ad andare sino a quella cabina per contattare gli affetti scomparsi. Per ridurre in qualche modo il dolore. E allora l’inventore, Itaru Sasaki, decise di aprire il suo spazio a tutti. Mese dopo mese il suo giardino è diventato meta di un pellegrinaggio gigantesco.

L'interno dell'ufficio postale alla deriva in Giappone (foto dal profilo Facebook "Giappone mon amour")

Le lettere

L’ufficio postale ha aperto i battenti due anni dopo, nel 2013, ed è Laura Imai Messina, scrittrice, italiana che vive in Giappone dal 2006, a raccontarlo nel suo ultimo libro “Tutti gli indirizzi perduti” (Einaudi, 240 pagine), come già aveva fatto per il telefono (“Quel che affidiamo al vento”) e in un servizio uscito sull’inserto Venerdì uscito nel novembre 2024 con Repubblica. Creato come installazione nella Triennale di Setouchi, il locale, realmente un vecchio edificio posatale, era stato messo a disposizione da Nakata Katsuhisa, oggi 91 anni, che avendovi lavorato per oltre quattro decenni lo aveva comprato per evitarne la demolizione. L’esposizione, pensata da una studentessa universitaria di Tokyo, doveva chiudere dopo un mese. L’idea era trasformare il locale in un porto nel quale far arrivare tutte le missive spedite a un destinatario vero ma non più esistente. Così Katsuhisa rimise la divisa e nell’arco di un mese «arrivarono più di trecento lettere» e «30mila visitatori», ha spiegato poi l’anziano sognatore. Che alla vista di quella impressionante mole di messaggi capì «quanto le persone abbiano bisogno di essere ascoltate». E dunque quanto sarebbe stato sbagliato chiudere l’ufficio al termine dell’iniziativa. È nato tutto da lì.

Una cassetta per le lettere

Dopo 12 anni

Sono trascorsi 12 anni e gli scaffali dell’edificio sono pieni di lettere, cartoline, pezzi di carta e visitatori di passaggio o magari arrivati volutamente in quell’isoletta lontana da tutto proprio per visitare l’ufficio postale, prendere in mano quelle carte, leggerle, emozionarsi, farsi coinvolgere nella vita altrui, scrivere a loro volta qualcosa di estremamente intimo e contemporaneamente universale. Sembrava un’idea destinata al fallimento: è stata un successo inatteso. A dimostrazione che certi sentimenti siano proprio del genere umano. Dove non arriva il telefono, può farlo una lettera.

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