La prima scena de “La legge di Lidia Poët” è di sicuro frutto dell’algoritmo, come direbbero con sarcasmo a “Boris 4” che dell’algoritmo che regola le serie si prende allegramente gioco. L’eroina che fece la battaglia per portare le donne all’avvocatura, interpretata nella serie di Netflix, da Matilda De Angelis, è bella, bellissima, con i suoi occhioni azzurri. E pratica una libertà sessuale certamente non immaginabile per i tempi – siamo alla fine dell’Ottocento – e per il contesto sociale di una ragazza di buona famiglia della comunità valdese. E nella famosa prima scena, che ha fatto storcere il naso a più di una commentatrice, Lidia è tra le lenzuola, nel clou di un rapporto amoroso con un ragazzo altrettanto bello, molto più di un amico ma meno impegnativo di un fidanzato. Lo stesso che alla fine dell’ultimo episodio la aspetta in carrozza per portarla in America e lei ha giusto quell’attimo di esitazione che serve per lanciare la seconda stagione.

Le polemiche

La serie di Netflix che racconta la storia della piemontese Lidia Poët, ammessa e poi espulsa dall’albo degli avvocati, e infine vittoriosa dopo decenni, è senza dubbio una storia di emancipazione femminile, nei canoni di un prodotto commerciale pensato per il grande pubblico. Un caso per episodio, dove è chiaro dall’inizio che l’accusato – difeso da Lidia per conto del fratello avvocato – è innocente, e in parallelo la battaglia, tra sentenze e ricorsi, per ottenere l’iscrizione all’Ordine degli avvocati. E poi c’è la vita di Lidia, ribelle e anticonformista, divisa tra l’amico/fidanzato e il giornalista compagno di inchieste (finirà anche lui nei guai) e imprigionata dalle regole e dagli stereotipi che paiono polverosi ma non sono poi così distanti da quelli di oggi. Le critiche alla serie sono arrivate prima – non a torto – da alcuni siti femministi: perché – ci si è chieste – la prima battuta di una donna che ha dedicato alla vita all’autodeterminazione è un sospiro di piacere? Poi è arrivata la pronipote Marilena Jahier Togliatto che ha dichiarato alla Stampa: “In quella serie non c’è nulla della mia parente Lidia, ne ho visto una sola puntata e ho subito abbandonato per sdegno”. Un altro parente la descrive come riservatissima e dedita allo studio. E anche la comunità valdese, a cui Lidia Poët apparteneva non l’ha presa bene. Sul settimanale Riforma si usa il termine “strappata l’anima”.

La battaglia di Lidia

Resta innegabile che la serie abbia portato nelle case una storia sconosciuta ai più, quella della prima donna italiana iscritta all’Ordine degli avvocati (ma la prima ad esercitare l’arte forense, è stata Giustina Rocca di Trani nella seconda metà del 1400). Nata nelle valli piemontesi e poi trasferita a Pinerolo, aveva intrapreso in Svizzera un percorso di studi tradizionale, da ragazza di buona famiglia: prima il diploma di maestra superiore e poi da insegnante di inglese, francese e tedesco. Poi aveva proseguito gli studi al liceo e, dopo essere passata per la facoltà di Medicina dove era stata allieva di Cesare Lombroso, si era laureata brillantemente in Giurisprudenza a Torino con una tesi sulla condizione femminile nella società e il diritto di voto per le donne. Superato brillantemente praticantato e esame di abilitazione chiede e ottiene, non senza polemiche e scontri, l’iscrizione all’Ordine degli avvocati e procuratori di Torino e nel 1883 Lidia Poet diventa la prima donna ammessa all’esercizio dell’avvocatura. Dura pochi mesi, la Corte d’appello di Torino ordina la cancellazione dall’Albo e nel 1884 la Corte di Cassazione respinge il ricorso di Poët.

Lidia Poët in una foto d'epoca (Wikipedia)

Interessanti le argomentazioni che vanno da quelle giuridiche, come l’impossibilità delle donne ad accedere a pubblici uffici, a quelle che si avventurano nella naturale riservatezza delle donne, nella difficoltà ad affrontare argomenti imbarazzanti per fanciulle oneste o addirittura negli abiti “strani o bizzarri” che stridevano con la toga. Ma ancora più significativa la questione lessicale che paradossalmente rafforza l’attuale linguaggio di genere. Secondo i giudici della Cassazione la legge sull’avvocatura non poteva estendersi alle donne perché usava solo il termine avvocato “e mai avvocata che pure è presente nella lingua italiana”. Lidia Poët, dopo aver di fatto praticato la professione per tutta la vita come collaboratrice del fratello Giovanni Enrico, all’età di 65 anni, nel 1920 viene ammessa all’Ordine degli avvocati di Torino grazie alla legge Sacchi che aboliva l’autorizzazione maritale e autorizzava le donne ad entrare negli uffici pubblici. Ma non in politica. Per il diritto al voto – altra battaglia che ha visto impegnata Poët per molti anni anche all’interno del Consiglio nazionale delle donne italiane – bisognerà aspettare altri 26 anni.

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