Era appena iniziata una giornata di lavoro. Quel venerdì, 22 settembre 1989, pioveva e l’umidità era insopportabile. Terralba si stava risvegliando per affrontare una mattinata come tante. Ma qualcosa stravolse la routine della quotidianità. Un boato, poi le sirene delle ambulanze. Le urla che imploravano aiuto. Dalle campagne di “Sa Serra Erbutzu” un fumo scuro, acre. Sono passati 33 anni da quella che i giornali di allora chiamarono la tragedia nella Fabbrica della morte. Otto persone uccise, un paese sgomento. Una sciagura che ancora oggi è viva nel ricordo di un intero territorio. «Un incubo che mi accompagna negli anni», racconta Giovanni Pittalis, all’epoca comandante della stazione dei carabinieri di Terralba, uno dei primi a intervenire tra le macerie del piccolo laboratorio di fuochi d’artificio nella periferia del paese.  

La fabbrica di fuochi d'artificio dove avvenne l'esplosione. Archivio L'Unione Sarda

LA TRAGEDIA Ore 8.10 si ferma il tempo lungo la strada costeggiata da vigne e campagna che da Terralba porta a Marceddì. Nei giorni prima, la piccola impresa di fuochi pirotecnici Oliva-Melis-Aramu era al lavoro per rispettare una serie di consegne. Ci sono le ultime sagre estive paesane in diversi centri dell’Isola, ma c’è soprattutto Sant’Efisio, la tradizionale festa del popolare quartiere di Oristano. Proprio il pomeriggio di giovedì, Vittorio Oliva, uno dei titolari della fabbrica e decano degli artificieri a Terralba, era andato nel quartiere di Su Brugu per fare un sopralluogo nell’area indicata per i fuochi, fra via Sassari e via Lepanto. Lì aveva incontrato l’allora priore Riccardo Chessa. Tutto sembra predisposto nei minimi dettagli. A Terralba, venerdì mattina si inizia quindi di buon’ora e si sistemano le ultime casse da caricare nel furgone per raggiungere il capoluogo. Si prepara il carico nel “Laboratorio B” una delle 7 casette della fabbrica di fuochi d’artificio, a conduzione familiare, distante poco meno di 7 chilometri dal centro abitato. Giovanni Aramu, allora aveva 42 anni, era al lavoro assieme ai compagni che sistemavano le casse dei fuochi sul pavimento dello stabile, pronte per essere caricate nel furgone. Aramu lascia il gruppo per raggiungere il mezzo. Ma quando è vicino al furgone lo investe un boato fortissimo e una luce abbagliante. Il magazzino è letteralmente per aria. Aramu stravolto cerca i compagni, piange e lancia l’allarme. Sarà l’unico sopravvissuto di quella strage. La deflagrazione uccide Rinaldo Oliva, 56 anni, di Terralba, e due suoi figli Alberto, 23 anni, e Saul, 19. Ucciso dallo scoppio anche il nipote, Umberto di 25 anni. Tra le vittime Domenico Melis, 22 anni, anche lui di Terralba ed Emilio Inconis, 56, di San Gavino. I due feriti, in condizioni gravissime, sono Vittorio Oliva 58 anni, di Terralba e Antonio Piras, 42 anni, di San Gavino. Vengono ricoverati nei centri grandi ustionati di Catania il primo, e a Milano il secondo. Piras morirà al Niguarda nel pomeriggio di domenica 24. Mentre Vittorio Oliva, crolla alle 23.30 il giorno dopo.

La Prima pagina de L'Unione Sarda, sabato 23 settembre 1989

LO SGOMENTO Terralba è un paese stravolto. Le sirene dei carabinieri, dei vigili del fuoco e dei mezzi di soccorso, ambulanze e auto di volontari non smettono di strillare poco dopo alcuni minuti, confermando le voci, confuse e inquietanti, che parlano di diversi morti. «Quando siamo arrivati davanti al Laboratorio B si presentò ai nostri occhi qualcosa di indescrivibile», racconta oggi l’ex sottufficiale dei Carabinieri, Giovanni Pittalis. «Abbiamo cercato di aiutare i feriti ma erano in condizioni choccanti». Corpi straziati dalla violenza del fuoco e della deflagrazione. «Vittorio Oliva - ricorda Pittalis- era gravemente ferito in tutto il corpo. Mentre eravamo vicino a lui per prestargli i primi soccorsi, si raccomandò subito che venissero aiutati prima i ragazzi». Lottò disperatamente contro la morte per alcuni gironi sotto le cure dei medici di Catania. Fu purtroppo l’ottava vittima di quella terribile strage. Il procurato capo di Oristano, Walter Basilone, aprì un’inchiesta per cercare di ricostruire le dinamiche di quell’inferno. Nel laboratorio arrivarono gli artificieri dell’Esercito da Nuoro, mentre i vigili del fuoco completavano le ricognizioni delle sale, bonificando i locali e cercando di ricostruire un quadro dettagliato e completo. Molti interrogativi attendevano doverose risposte. Dopo quattro anni di indagini la Procura della Repubblica del Tribunale di Oristano chiuse il fascicolo spiegando che la causa più probabile fosse da attribuire a una sorta di innesco naturale: la grande umidità presente e la conseguente elettricità nell’aria crearono quell’immane disastro. Insomma nessuna certezza, ma solo un’ipotesi legata a un fatto atmosferico. I vigli del fuoco confermarono come nella fabbrica fossero stati adottati correttamente tutti i sistemi di sicurezza. L’ingegner Fabio Sassu, tra i prima a raggiungere Terralba dal Comando provinciale dei vigili del fuoco di Oristano, coordinò le operazioni di soccorso e i controlli. Ribadì ai cronisti che «dai sopralluoghi nei vari edifici della fabbrica ci siamo resi conto della professionalità e della serietà di chi dirigeva la produzione». Tutte le diverse fasi di lavoro per motivi di sicurezza si svolgevano separatamente nei diversi laboratori: stivaggio esplosivi, dosaggio, assemblaggio, confezione dei «botti». Non esisteva un impianto elettrico per evitare possibili corti circuiti e tutte quelle piccole costruzioni erano avvolte in una «gabbia di Faraday» per evitare che le violente scariche elettriche dei fulmini potessero raggiungere internamente gli esplosivi. Tutto era secondo le norme. Ma questo, purtroppo, non servì a evitare una delle più drammatiche sciagure della Sardegna.

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