​Mise la chitarra a tracolla, saltò sul palco, iniziò a suonare. E il pubblico fischiò. A sessant’anni dalla svolta elettrica di Bob Dylan (era una notte di fine luglio del 1965, a Newport), quelle persone che reagirono con tanta veemenza al nuovo sound del loro idolo fanno quasi tenerezza: come chi considerava il cinematografo uno strumento del demonio, o i profeti miopi che bollarono internet come un fenomeno passeggero. Il senno di poi è sempre uno strumento inaffidabile, ma certo oggi è assurdo pensare al futuro premio Nobel per la letteratura confinato nella gabbia del folk tradizionale, con la sua chitarra acustica, la voce sgraziata e poco altro. Non sarebbe stato Dylan, non avrebbe influenzato buona parte della musica dei decenni successivi, non avrebbe regalato al mondo – per esempio – quella che è stata giudicata la più bella canzone rock della storia, Like a rolling stone.

La svolta elettrica è stata tante cose: un momento di rottura tra tradizione e modernità, una pagina di storia della musica popolare, l’evento centrale di un libro (Dylan goes electric!, Elijah Wald, 2015) e ora anche di un film (A complete unknown, James Mangold, 2024). Ma una cosa non è stata: un fulmine a ciel sereno. Chi l’ha raccontata o compresa in questo modo dimentica che la rivoluzione era stata annunciata già a marzo, con l’uscita dell’album “Bringing it all back home”. Un capolavoro aperto da un brano-manifesto – Subterranean Homesick Blues – che all’epoca nessuno seppe classificare, perché non somigliava a niente che esistesse già: alla fine si parlò di folk-rock più che altro per mancanza di etichette più convincenti. Ma sembrava uno di quegli oggetti che cambiano forma a seconda del lato da cui li si guarda: poteva essere suonato come un rock and roll, conservava ancora le sonorità ferrose della tradizione, il testo era qualcosa di allucinato a metà tra i poeti maledetti e il sogno di un ubriaco (ma con puntuali frecciate politiche), e di fatto veniva cantato come un rap ante litteram. Fu anche uno dei primi videoclip, non il primissimo ma il più originale per l’epoca: è quello in cui l’autore lascia cadere uno dopo l’altro i cartelli con le parole della canzone, mentre sullo sfondo si vede il poeta Allen Ginsberg che sembra capitato lì per caso (pare tra l’altro che fosse stato arruolato per scrivere a mano alcuni dei cartelli).

La transizione

“Bringing it all back home” in realtà non volta radicalmente le spalle al passato: alcune tracce sono ancora molto simili alle ballate del primo Dylan. A partire dal brano che poi divenne il più famoso, Mr. Tambourine Man (anche se per valorizzarlo fu decisiva la versione psichedelica dei Byrds). Ma una parte delle canzoni incise nel “long playing”, come si diceva nel secolo scorso, sembra invece prendere le mosse dalla tradizione folk per portarla su terreni nuovi, soprattutto grazie all’utilizzo degli strumenti elettrici. Insomma, “Bringing it all back home” non completa la rivoluzione (non a caso si parla di “trilogia elettrica” di Dylan, con i successivi album “Highway 61 revisited” e “Blonde on blonde”), ma la avvia: e una delle prove che l’autore fosse perfettamente consapevole della portata innovativa dell’opera sta nei tanti messaggi criptici contenuti nella foto di copertina.

La copertina dell'album "Bringing it all back home" (Columbia Records) con la foto di Daniel Kramer

Lo scatto di Daniel Kramer è passato alla storia come uno dei più suggestivi e sibillini scelti per presentare un “33 giri” (per utilizzare un’altra terminologia che alle orecchie di un nativo digitale non ha alcun senso). Una visione quasi onirica, per l’alta improbabilità della scena e la doppia esposizione utilizzata da Kramer, che altera l’immagine. Del resto uno dei brani dell’album si intitola “Il 115esimo sogno di Bob Dylan”, e la dimensione onirica – che richiama l’allucinazione delle droghe – è spesso evocata dalle canzoni dylaniane del tempo.

Mille piccoli dettagli

Nella foto, Dylan guarda l’obiettivo con un’aria enigmatica, mentre accarezza un gatto che pare si chiamasse Rolling Stone. Vestito in modo insolitamente formale, indossa ai polsi i gemelli che gli erano stati regalati da Joan Baez. Attorno a lui, una molteplicità di segni che sono stati variamente interpretati (e magari non tutti hanno un senso o una chiave, proprio come capita nei sogni). Il cantautore tiene con sé una rivista su cui si intravede un articolo sulla vita di Jean Harlow, la Marylin Monroe degli anni Trenta: stesso impatto conturbante sul cinema e la società americana, analoga fine prematura, anche se non per suicidio. Compare sullo sfondo anche una donna in carne e ossa, affascinante e misteriosa nel suo vestito rosso e la posa studiata: è Sally Grossman, moglie del manager di Dylan dell’epoca, Albert Grossman. Di lei si dice che avesse presentato all’amico Bob quella che poi divenne la sua prima moglie, Sara. Dietro il braccio di Sally si intravede la copertina di “Another side of Bob Dylan”, l’album precedente: indica un’origine da cui però ci si sta allontanando. Chissà se ha una relazione col dettaglio forse più difficile da interpretare, sistemato invece in primo piano ma defilato: il cartello col simbolo del nucleare e la scritta “Fallout Shelter” (rifugio antiatomico), in cui qualcuno ha letto un’allusione alla portata rivoluzionaria del disco stesso, ma potrebbe anche solo riecheggiare l’incubo della guerra già espresso da Dylan. E a proposito: il presidente Usa Lyndon Johnson, che occhieggia dalla copertina del Time accanto a Sally Grossman, era all’epoca già nel mirino dei pacifisti per la sue scelte sul Vietnam.

“Another side” è solo uno dei tanti dischi sparsi qua e là nella foto. Alcuni finirono lì in modo casuale, ma non tutti: per esempio quelli di Ravi Shankar e Robert Johnson sembrano indicare delle ispirazioni forti. Sullo sfondo, la mensola del camino ospita, tra le altre cose, una rivista dedicata alle danze estatiche del Marocco e il quadro di un clown che lo stesso Dylan aveva realizzato per un amico. Molti anni dopo, Kramer spiegò che l’intento della composizione – anche per mezzo dell’espediente tecnico che offusca in parte la foto – era rappresentare un mondo caotico e in rapida trasformazione attorno all’artista consapevole, e capace con la sua sensibilità di leggere i segni dei tempi. Del resto, che i tempi stessero cambiando era stato annunciato e cantato poco più di un anno prima: sì, sempre da Bob Dylan.

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