“Il mio sogno? Quello di vedere il Mediterraneo tornare a essere un ponte, un collegamento tra terre, come è sempre stato. Adesso sta diventando invece un vero e proprio muro”. Agostino Mulas, 62 anni, nato a Madrid “ma col sangue sardo nelle vene”, è capo missione e rappresentante dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) in Algeria. Si occupa di aiutare il governo locale a dare un appoggio agli invisibili, quelli di cui nessuno parla e quelli che non hanno voce perché la loro battaglia non fa notizia oltre i confini in cui vivono. Tanto che anche la Commissione europea li ha definiti “dimenticati”.
Sono i Sahrawi, rifugiati nei campi di Tindouf da oltre 40 anni, “in pratica due generazioni di persone che un giorno sperano di poter tornare nella parte occidentale del Sahara – spiega Mulas -. Originari della colonia iberica che nel 1975 la Spagna ha deciso di abbandonare suscitando la rivendicazione da parte del Marocco, hanno affrontato la fuga quando la loro indipendenza non è stata riconosciuta. Hanno abbandonato le case, la loro storia e portato i loro bagagli verso l’Algeria, Paese che da sempre ha una tradizione di accoglienza. Da allora c’è una missione di pace per trovare una soluzione, ma i negoziati non hanno mai raggiunto l’obiettivo desiderato”. 
Padre di Nurri e nonno materno di Cuglieri, cresciuto tra Colombia e Messico, la prima volta che è andato in Sardegna era un adolescente, “era un mio grande desiderio, ne avevo sempre sentito parlare in famiglia, me la descrivevano come un posto meraviglioso”; ha potuto fare visita a zii, cugini e parenti vari a Nurri, Esterzili, Cagliari e provincia. Da allora “è per me religiosamente una tappa fissa ogni anno”.


Quando è tornato in Italia per frequentare l’Università l’idea era quella di mettere radici nel Belpaese: “Non volevo muovermi più, volevo avere dei figli che crescessero lì. Purtroppo avevo anche il ‘virus’ del nomadismo e ho cercato un lavoro nelle Nazioni Unite". Dopo una lunga carriera e tante difficoltà anche logistiche, essendo stato spostato in tutti i continenti, è arrivato in Algeria. “Avevo vissuto le principali crisi internazionali degli anni Ottanta in Centro America, la guerra in Liberia, la situazione del Bangladesh, dei Balcani, del Ruanda, portando quasi sempre con me moglie e figli”.
L’Algeria lo ha messo di fronte alla questione umanitaria dei Sahrawi, un numero indefinito di persone che da quattro decenni lottano per tornare in quella che vivono come “casa”, quella che 40 anni fa hanno abbandonato, il Sahara occidentale.
Perché non si ha un numero preciso di queste persone?
“Una stima è difficile da fare perché sono circa 90mila i vulnerabili che assistiamo, ma siamo coscienti che ce ne siano in realtà molti di più. Un vero e proprio censimento non è stato fatto e la speranza dell’Onu è quella di arrivare a un referendum per decidere sull’indipendenza e dare quindi un numero esatto di Sahrawi”.
Come si possono “definire”?
“La loro condizione non è assimilabile alla distinzione italiana tra migranti, rifugiati o profughi. L’Onu utilizza il termine di ‘refugees’ per indicare coloro che hanno bisogno di protezione internazionale, mentre il migrante è colui che si muove non perché è perseguitato ma per inseguire un’opportunità, un futuro migliore. Se non riesce a inserirsi in una nuova comunità rischia di essere rimandato a casa, e sarà un fallimento. Questo è il suo unico timore, cosa diversa dal ‘refugee’ che, invece, ha tutte le ragioni di temere per la sua vita nel caso in cui venga rispedito da dove è partito”.

Lezione di informatica nei campi Sahrawi (foto concessa)
Lezione di informatica nei campi Sahrawi (foto concessa)
Lezione di informatica nei campi Sahrawi (foto concessa)

In cosa consiste il suo lavoro?
“Sono capo missione e rappresentante dell’Unhcr, mi occupo di aiutare il governo algerino a cercare di dare un aiuto ai rifugiati che sono in questo territorio. È un Paese che ha una lunga tradizione di asilo e di appoggio, ha ricevuto anche rifugiati da Medio Oriente, Europa, Siria, ci sono attualmente 100-200mila Sahrawi nei campi del sudovest ai quali forniamo assistenza”. 
In che modo?

“Diamo loro i beni essenziali: cibo, acqua, ma ci occupiamo anche della loro salute, dell’educazione scolastica, della formazione professionale. In modo da fornire loro gli strumenti per un futuro degno di questo nome. Pochi sono quelli che vanno via, il senso di comunità che avvertono è molto forte. Ci sono quindi famiglie intere, i bambini vanno a scuola, i ragazzi all’Università in Algeria e qualcuno in Spagna. Molti ad esempio sono stati a Cuba e sono tornati in qualità di medici al servizio degli altri”.
Ci descrive i campi?
“All’inizio le case erano praticamente di fango, adesso anche di mattoni. Poi ci sono sempre le loro tende tradizionali. Le persone vengono inserite in piccoli progetti di agricoltura, anche per tenerle impegnate e migliorare la loro alimentazione. Hanno una piccola economia: possono uscire e tornare nei campi come vogliono, non ci sono fili spinati, quindi hanno telefonini che comprano oltre confine, gira del denaro. Noi forniamo l’essenziale, per il resto si gestiscono in autonomia e hanno una specie di autogoverno con simil-documenti di identità”.

Com’è la loro cultura?
“Sul fronte della religione sono in gran parte musulmani moderati. La paura è che il senso di frustrazione possa spingere le nuove generazioni verso l’estremismo ma devo dire che finora non abbiamo registrato nessun caso. Quasi tutti hanno uno smartphone, qui c’è internet e ci occupiamo anche dell’educazione tecnologica, questo per far capire che non si trovano a uno stadio primitivo. Ovviamente vorremmo inserire dei computer in tutte le classi elementari, è un obiettivo. Chi lavora ha una piccola indennità ad esempio i maestri, gli infermieri, e c’è grande solidarietà da parte della Spagna dove in ogni città c’è un vero e proprio comitato. Prima del Covid arrivavano dalla penisola iberica carichi di aiuti e in estate i bambini dei campi venivano invitati nelle colonie estive spagnole, cosa che ha fatto anche l’Italia, l’Emilia Romagna in particolare”.

Una lezione (foto concessa)
Una lezione (foto concessa)
Una lezione (foto concessa)

Che lingua parlano?
“Una buona parte parla spagnolo, arabo, molti l’inglese, alcuni il francese che si rivela fondamentale per frequentare le università, sono molto pronti a imparare”.

Perché di loro nessuno parla?
“Perché è una situazione dimenticata, non sono ‘visibili’ per i mezzi di comunicazione come invece accade ai siriani. Noi viviamo con i fondi della comunità internazionale ma è chiaro che potremmo avere di più e fare molto di più per i Sahrawi”.
Avverte avversione nei loro confronti da parte della società?
“No, l’Algeria è un Paese enorme e loro stanno in un angolo, in una striscia di deserto. C’è grande solidarietà per questo popolo che è stato vicino agli algerini ai tempi della guerra di indipendenza. C’è meno tolleranza per i movimenti migratori misti di altre comunità che vengono dal Sud Sahara, soprattutto di recente per la crisi economica. Ho sentito dire le solite frasi ‘vengono a rubarci il lavoro’, ma l’Algeria riceve ed è contemporaneamente uno Stato di transito. Chi arriva spera di andare oltre. E poi ci sono anche gli algerini che cercano di raggiungere la Sardegna”.
Oltre alla crisi in questi mesi c’è stata l’emergenza Covid, come l’avete gestita?
“Tutti i Sahrawi hanno avuto accesso alla vaccinazione. Ovviamente ci siamo potuti muovere meno e ci siamo limitati alle attività urgenti. Le scuole sono state chiuse e le altre attività sospese. Per fortuna la comunità non è stata colpita in modo grave: sia per un fattore strettamente geografico sia perché non ci sono molti anziani. Siamo comunque preoccupati e tentiamo di convincere tutti a vaccinarsi”.

Una lezione (foto concessa)
Una lezione (foto concessa)
Una lezione (foto concessa)

Qual è la loro speranza?
“Tornare a casa, avere l’indipendenza. È un desiderio intrinseco, un po’ come quello dei palestinesi, per fare un esempio. Sanno che sarà difficile tornare ad avere i loro territori ma non hanno intenzione di rinunciare e dai campi non si vogliono muovere”.
Cosa invece, realisticamente, vede nel loro futuro?
“Dato che non pensano di abbandonare la loro situazione e nemmeno di emigrare magari verso l’Europa, è importante che siano preparati e che abbiano le basi per costruire un domani migliore, una giusta formazione che parta dall’istruzione”.
Noi italiani facciamo la nostra parte in questa vicenda?
“Credo di sì, non so se si possa fare di più. Il presidente Sergio Mattarella, quando è venuto qui di recente, ha detto che avrebbe voluto che l’Italia spingesse per una soluzione politica in seno all’Onu e il fatto che il nuovo inviato speciale dell’Onu Staffan De Mistura è italo-svedese potrebbe rappresentare un fatto importante”.
E nel suo, di futuro, cosa ci sarà?
“Forse andrò in pensione l’anno prossimo. Vorrei fermarmi un po’, trascorrere sei mesi in Sardegna e sei mesi a viaggiare. Magari continuare a impegnarmi nella promozione degli scambi culturali tra i popoli specialmente del Mediterraneo. Incoraggiare il dialogo sul ponte di questo bellissimo mare, affinché torni a essere quel collegamento che è sempre stato, nel senso migliore che possa esistere”.

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