Nel carcere di Uta è stato il penultimo direttore. Gianfranco Pala, classe 1958, in pensione da cinque anni, prima di approdare nel più grande penitenziario della Sardegna ha girato quasi tutte le strutture isolane. Inclusa l'Asinara, negli anni della guerra Stato-Mafia, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, a maggio e luglio del 1992.

Nelle celle fronte mare, Pala ha incontrato i più feroci boss-assassini: da Totò Riina ad Antonio Madonia. Era l'agosto di quello stesso anno.

Con l'intervista all'ex direttore di Uta si chiude l'approfondimento dell'Unionesarda.it dedicato alle carceri. Tre puntate cominciate con la Garante per i detenuti, Irene Testa, e proseguite con la socio-fondatrice dell'associazione “Socialismo Diritti Riforme”, Maria Grazia Caligaris.

Dottor Pala, lo sa che i direttori italiani non vogliono trasferirsi in Sardegna?

«Lo so. Purtroppo lo so. Sull'assegnazione dei posti dirigenziali c'era già crisi nera quando ancora lavoravo».

Secondo lei perché?

«Il problema è l'isolamento della Sardegna: la qualità delle carceri non c'entra, le nostre strutture non sono peggiori rispetto a quelle del Continente. Anzi: sono molto più vivibili, si lavora meglio qui che fuori. Di norma, un direttore di carcere vince il concorso tra i 35 e i 40 anni: vuol dire che spesso ha moglie e figli. Spostare la famiglia non è agevole. La Sardegna è bella per venire in vacanza. Si aggiunga che i sardi faticano a vincere i concorsi».

Conosce il motivo?

«È numerico. I sardi che partecipano alle prove sono molti di meno rispetto ai napoletani, ai pugliesi e ai siciliani che hanno una lunga tradizione in questo campo. Sono quasi sempre i candidati del Meridione ad arrivare primi nelle selezioni».

A lei è andata meglio?

«Io ho vinto il concorso nel 1986. Prima assunzione a Cuneo. Ma nel giro di pochissimi anni sono tornato in Sardegna: ho fatto Badu e' Carros, poi l'Asinara, Alghero, Mamone e Cagliari, quando era ancora aperta la casa circondariale di Buoncammino».

Una storia che ancora ricorda?

«Ce ne sono tante. Ma probabilmente la più forte è stata la ri-apertura di Fornelli, all'Asinara, che ad agosto '92 diventa il braccio del 41 bis, il carcere duro».

Erano passati quattordici anni dalla rivolta delle caffettiere, quando i detenuti si ribellarono all'allora direttore Luigi Cardullo, poi condannato insieme alla moglie Leda Sapio, chiamata la zarina, per le tangenti prese con la ricostruzione mai conclusa. Della ri-apertura cosa ricorda in particolare?

«Quando arrivarono i mafiosi, ben 154 nel giro di tre-quattro giorni, l'Amministrazione penitenziaria si era dimenticata di mandare i rinforzi degli agenti. Su quei 154 boss vigilammo in ventisei».

Paura?

«Tensione».

Lei all'Asinara in che anno è arrivato?

«Nel 1991, quando ormai c'era era solo la colonia penale agricola con detenuti “comuni”. Era stata archiviata anche la parentesi dei detenuti politici, in regime di massima sicurezza, negli anni delle Br, della lotta armata e del terrorismo nero. Addirittura, quando venni mandato io, sembrava che il carcere dovesse chiudere da un momento all'altro, si parlava già di parco. Poi nel 1992, con le mattanze di Capaci e via D'Amelio, lo Stato decise di riutilizzare Fornelli».

Chi le comunicò che la sua permanenza sull'isola sarebbe durata a lungo?

«Venne il capo dell'Amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato».

Cosa le disse?

«Di riaprire. E mi diede carta bianca nell'organizzazione. Precisò: "Faccia quello che vuole ma ha un mese di tempo”».

Cosa c'era da rimettere a posto?

«Tutto. Dopo la rivolta delle caffettiere, le opere per risistemare Fornelli non vennero mai completate».

Come organizzò il lavoro?

«Ingaggiai una decina di detenuti e quattro agenti. In ventotto giorni finirono tutto».

Fornelli riapre ad agosto del 1992. Sino ad allora quanti detenuti c'erano?

«Un centinaio».

I 154 boss vennero portati all'Asinara tutti insieme?

«No, arrivarono in gruppi da cinquanta, in elicottero».

Chi fu il primo a toccare terra?

«Giuseppe Madonia, il fratello del capomafia Nino».

Vi eravate detti qualcosa?

«Nulla. Ma mentre loro arrivavano, io studiavo i fascicoli. Madonia era accusato di novantasei o novantasette omicidi, adesso non ricordo con precisione. Feci una riflessione: “Certo che qui non ce la farà ad arrivare a cento”».

Chi altro sbarcò?

«Il camorrista Francesco Schiavone, il Sandokan di Napoli».

E Totò Riina.

«Che faceva l'umile. Il dimesso. Io, allora, ero giovane. Quel giorno di  agosto indossavo un paio di jeans e una camicia militare. Quando mi rivide a distanza di ventiquattro ore, mi salutò con tono servizievole. Mi disse che non sapeva fossi il direttore, altrimenti mi avrebbe salutato diversamente».

Riina le ha mai procurato grane?

«Mai. Era più aspro Leoluca Bagarella, il cognato».

È vero che la stanza di Riina veniva chiamata “la discoteca” perché c'erano le luci sempre accese?

«Sì».

Una volta approdati sull'isola, quale fu il primo ordine che diede a mafiosi e camorristi?

«Tutti ebbero l'obbligo di togliere collane, anelli e bracciali».

Tutto in oro?

«Sì, riempirono una scatola intera di sigarette».

Dal braccio del 41 bis i boss potevano uscire?

«Due ore al giorno».

Riina invece aveva l'obbligo dell'isolamento anche diurno.

«Sì».

Trattamento esagerato anche per un pluriassassino senza pietà?

«Un trattamento non ideale. Però dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, lo Stato scelse una punizione esemplare contro il capo dei capi. Lo Stato era in guerra con la mafia. Allora il 41 bis poteva avere un senso. Oggi è una misura eccessiva».

Negli anni che lei ha trascorso all'Asinara quanti boss sono arrivati?

«Circa 250 e una cinquantina scelse di pentirsi e collaborare con la giustizia».

Come avveniva il pentimento?

«Mi chiamavano e io informavo la Dia, la Direzione distrettuale anti-mafia. Allora era guidata da Gianni De Gennaro che arrivava in giornata o al massimo il giorno successivo. Parlava col boss in questione e poi decideva se avviare o meno la protezione».

Chi fu il primo a pentirsi?

«Santino Di Matteo».

Dopo la decisione di collaborare, quanto tempo venne lasciato a Fornelli?

«Pochissime ore. Venne spostato subito».

In un luogo segreto?

«I pentiti li portavano via in elicottero. Nemmeno noi dell'Amministrazione penitenziaria conoscevamo la destinazione».

La vita col 41 bis era tutta a porte chiuse?

«Sì. Anche l'ora d'aria era in un cortile. I detenuti della colonia penale, invece, potevano anche fare il bagno al mare. Erano liberi di muoversi dall'alba sino a un'ora prima del tramonto».

Che lavori facevano i detenuti “comuni”.

«C'è chi tagliava la legna, chi curava gli orti. Il pastore, addirittura, aveva una pinnetta dove ripararsi o riposare, quando portava il gregge al pascolo».

I parenti dei boss andavano all'Asinara?

«Sì».

Cosa ricorda di loro?

«Erano molto chiusi, titubanti. Guardinghi. Avevano paura di tutto, soprattutto di essere intercettati».

Quali parenti sbarcavano più spesso?

«Quelli dei boss napoletani. I familiari di Sandokan Schiavone, ma anche quelli di Luigi Vollaro, altro potentissimo della Camorra».

I parenti di Riina?

«Vennero solo una volta».

L'esperienza del 41 bis all'Asinara quando si conclude?

«Nel 1998».

Lei c'era ancora?

«Sempre».

Come fu la fine?

«Difficile. Non tutto il personale voleva andare via. Chi sperava di restare, boicottava il lavoro di chi stava seguendo l'ordine di smantellare».

È riuscito a metterli d'accordo?

«Alla fine hanno collaborato tutti. Chiudemmo l'Asinara in un mese, in una clima di grande unità».

Sanità in carcere.

«Sino alla riforma Bindi degli anni Novanta, i medici che si occupavano dei detenuti facevano parte dell'Amministrazione penitenziaria. Poi sono passati al Servizio sanitario nazionale».

Meglio prima o adesso?

«Prima, senza dubbio. Le Asl sono dei carrozzoni, i tempi di accesso alle cure si sono allungati parecchio».

Quando era direttore lei, quali erano i detenuti più fragili?

«I malati di Aids. Ma se la Asl faceva orecchie da mercante, si provava a rimediare. E ci riuscivamo. La situazione sta degenerando anno dopo anno. Oggi la sanità è malandata anche fuori dalle case circondariali».

Esiste una geografia carceraria per reato?

«Assolutamente. A Cagliari i tossicodipendenti hanno sempre rappresentato la maggioranza dei reclusi. A Nuoro, almeno negli anni in cui ho lavorato io, i detenuti erano persone legate all'Anonima sequestri o accusate di omicidio. E quelli sì che avevano il sostegno delle famiglie. I tossicodipendenti, invece, non sono ben voluti nemmeno dai parenti che, al contrario, tendono ad abbandonarli».

Si aggiunga che le comunità di recupero non sono mai state sufficienti.

«Le comunità mancano ma gli stessi tossicodipendenti, anche quando potrebbero, sono i primi a non volerci andare, perché lì c'è maggiore disciplina rispetto alle carceri. I detenuti più difficili da gestire sono proprio quelli che fanno uso di droghe. Non hanno l'umore stabile, quindi manifestano difficoltà nelle relazioni. Spesso hanno l'epatite, per cui non possono essere destinati alla consegna del cibo e alla pulizia delle cucine. Sono anche troppo fragili fisicamente per essere impiegati nel Mof, nella manutenzione ordinaria dei fabbricati, come falegnami, fabbri, muratori o imbianchini».

Solitudine dei detenuti: caso isolato o costante?

«Purtroppo una costante. A Uta, su 540 detenuti, almeno 120-130 non hanno mai ricevuto la visita di un parente. Mai una chiamata. Né soldi né un pacco. C'è una miseria che si taglia a fette. Per altri 150, i familiari si facevano sentire ogni morte di papa».

L'uso del cellulare in cella?

«Non ammesso. Mai e in alcun caso».

La tv?

«Quanto vogliono. Le tv sono accese 18 ore su 24».

L'hanno mai boicottata i detenuti?

«No, mai, ho avuto sempre ottimi rapporti. Anche con la polizia penitenziaria».

Quella volta che è stato troppo duro?

«A volte, bisogna esserlo; altre è necessario essere elastici. Coi prepotenti, è indispensabile fare i duri, sennò ti mangiano la pastasciutta in testa».

Il migliore penitenziario della Sardegna?

«Non ho mai lavorato a Oristano e Tempio, ma il carcere di Nuoro è quello dove sono stato meglio. Struttura buona, servizio amministrativo discreto, medici collaborativi, polizia di qualità. Del maresciallo Franco Collu conservo un ricordo speciale».

Pazienti psichiatrici: altra emergenza.

«Indubbio. Il loro posto sarebbe nelle Rems, ma in Sardegna ce n'è solo una, a Capoterra, e ha appena sedici posti. Ma se il carcere chiede il ricovero in Psichiatria di un detenuto in sofferenza, l'ospedale lo dimette il giorno dopo».

È vero che le guardie hanno confidenti tra i reclusi?

«È una misura necessaria».

Un errore che fa fatica a perdonarsi?

«Grossi errori non ne ho fatti».

Un detenuto a cui si era affezionato?

«Mi è capitato più di una volta. Ne sento ancora uno, mi chiama per sapere come sto. Alcuni li incontro per strada. L'umanità prima di tutto».

Con le detenute cambiava modi?

«Anche questa regola me l'ha insegnata il maresciallo di Cuneo: i colloqui con le detenute li ho fatti sempre in presenza di una poliziotta».

Perché?

«Per evitare brutte accuse, tipo quella di aver allungato le mani. Con le donne e con i reclusi nel 41 bis mai colloqui in solitaria».

Quando venne chiuso Buoncammino, lei era il direttore. Trasferì a Uta 334 detenuti in sei ore.

«Non ci fu un solo contrattempo».

Quanti bambini ha visto crescere in carcere?

«Più di uno».

Venivano da lei in ufficio?

«Andavo io da loro».

Quanti anni di carriera?

«Trentatré».

La scena peggiore?

«Una mamma a cui portarono via il bambino. I figli degli altri sono sempre anche un po' nostri».

Le manca il lavoro?

«Un po' di nostalgia c'è. Ma tutto sommato l'uscita non è stata traumatica. Ho comunque avuto il privilegio di fare un lavoro bello e interessante. La delinquenza si previene con la scuola e lo sport. Sono presidente di un'associazione pugilistica. Anche la boxe salva parecchi ragazzi. Perché una volta che si entra in cella, è difficile uscirne».

Il recupero dei detenuti è un'utopia?

«Io non ci ho mai creduto. Chi si salva, si accorge da solo di aver sbagliato».

Su 100, quanti ce la fanno?

«Cinquanta. E sono sempre persone che hanno alle spalle una famiglia e conoscono un mestiere. O lo imparano».

È più tornato all'Asinara?

«Dodici-tredici anni fa. Da turista. Ho trovato un'isola abbandonata. Un paese fantasma. Senza più scuole e famiglia. Mi ha fatto un brutto effetto».

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