Il lavoro, un po’ come la guerra, ha sempre reclamato le sue vittime. Ancora di più questo assioma è valido quando un Paese è coinvolto in un conflitto e bisogna sostenere lo sforzo bellico ad ogni costo, senza alcun riguarda alla stanchezza di chi lavora e alle norme di sicurezza. A ricordarcelo, con linguaggio fortemente evocativo e poetico, è Ilaria Rossetti nel suo romanzo “La fabbrica delle ragazze” (Bompiani, 2024, pp. 312, anche e-book) in cui rievoca il grave incidente avvenuto nel 1918 nella fabbrica Sutter & Thévenot di Bollate, vicino a Milano.

Nell’esplosione dell’impianto, destinato alla produzione di munizioni, morirono 59 operai e soprattutto operaie, perché in piena Grande guerra gli uomini erano soliti crepare in trincea e alle donne toccava l’amaro compito di sostenere e sacrificarsi sul fronte interno.

Sono stati versati giustamente fiumi di inchiostro sulla tragedia umana vissuta dai soldati impegnati nella Prima guerra mondiale.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Il conflitto fu però drammatico anche per chi non era in prima linea, in particolare per le donne. Pensiamo solo al dramma di veder partire padri, mariti, figli per il fronte e vivere per anni nell’angosciante attesa di una lettera rassicurate oppure di una scarna comunicazione ufficiale che annunciava che il proprio familiare era caduto per la patria. Proviamo a metterci nei panni di donne di tutte le età che si ritrovavano improvvisamente sole a provvedere alla famiglia, in un’epoca in cui erano quasi solo gli uomini a lavorare e a guadagnare uno stipendio. Spesso denutrite, sfinite dalla fatica e terrorizzate dai nemici, le donne morirono in gran numero anche se non per il tiro dell’artiglieria: degli oltre sei milioni di civili spazzati via dalla Grande Guerra la maggior parte furono donne. In questo quadro tragico e che sarebbe insensato abbellire, le donne mostrarono un gran coraggio e soprattutto un gran cuore. Furono loro a tenere in piedi il fronte interno, cioè l’intera struttura della società civile, e lo fecero in molti modi. Le trovavi nelle retrovie del fronte come cuoche, vivandiere, sarte. Oppure negli ospedali da campo come crocerossine – diecimila italiane operarono nella Croce Rossa nel 1918 – oppure infermiere. Assenti quasi tutti gli uomini, toccò alle donne andare in fabbrica, in officina, far funzionare le città. Giovani e meno giovani si ritrovarono a guidare tram, fare le postine, le spazzine e le maestre, a far funzionare torni e saldatrici in fabbrica, a lavorare nei negozi di barbiere e negli uffici prima appannaggio dei soli uomini. E le cose funzionarono alla grande e la macchina industriale non si fermò mai, riuscendo a soddisfare la crescente richiesta di armamenti e rifornimenti da parte dell’esercito. Anzi, le donne ressero turni massacranti, in ambienti malsani. Per esempio, le operaie che lavoravano nelle fabbriche di armamenti venivano chiamate “canarine” perché a fine lavoro erano tutte gialle come canarini. Peccato che quel colore fosse dovuto al contatto con la polvere pirica e le sostanze chimiche nocive adoperate in fabbrica!

A queste donne Ilaria Rossetti dedica un romanzo che è una sorta di elegia commossa. Ragazze del 1918 con i capelli al vento di chi attraversa la campagna in bicicletta, con le guance scavate perché il cibo scarseggia ma gli occhi ardenti di chi ha tutta la vita davanti, con le dita sottili che sono perfette per costruire le munizioni. Infatti, durante la Prima guerra mondiale, la fabbrica Sutter & Thévenot sceglie proprio la campagna lombarda per installare, a Castellazzo di Bollate, uno degli stabilimenti dove centinaia di donne giovanissime fanno i turni per rifornire i soldati al fronte. Migliaia e migliaia di ragazzi, allontanati dalle famiglie e dal lavoro per andare a far carne da macello nelle trincee, con i cuori pieni di nostalgia e pronti ad accendersi quando arriva una cartolina vergata da una grafia femminile, come succede a Corrado che per amore arriva alla diserzione...

Ma è il 1918 e la storia non fa sconti: è così che Emilia, la piccola di casa, la mattina del 7 giugno saluta i genitori senza sapere se li rivedrà, perché una grave esplosione investirà la fabbrica causando decine di vittime, quasi tutte donne e bambine. La produzione però riprende subito, in tempo di guerra le vite umane contano ancora meno del solito. È così che Corrado e il padre di Emilia, Martino, con sua moglie Teresa dovranno accettare che la realtà è più dura dei sogni e il tempo scorre indifferente. E che le guerre anche quando finiscono, non finiscono mai per tutti.

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