Ognuno di noi sente in certi momenti della vita di aver bisogno di protezione, di cura. Sente che le proprie emozioni hanno bisogno di riconoscimento. Ognuno di noi può aver bisogno di compassione oppure di essere aiutato, anzi salvato. La vita, infatti, ti mette sempre davanti a nuove sfide, spesso improvvise e non semplici da gestire.

Nell’ultimo romanzo di Carlo Patriarca "La curva di sopravvivenza” (Neri Pozza, 2024, pp. 192, anche e-book) proprio di fronte a una sfida spiazzante si trova prima di tutti Vittorio, professore di storia in pensione e ipocondriaco di lungo corso. Vittorio, dopo tante paure malriposte, un giorno si trova a fronteggiare una vera diagnosi preoccupante. Quella diagnosi, oltre a risospingerlo nella realtà, riallaccia i fili della vita di due giovani medici, il nipote Aldo e il suo amico di sempre, Bruno. Bruno, dall’indole riservata e riflessiva, è diventato anatomopatologo, mestiere che lo porta a confrontarsi in solitudine con malattie insidiose, spesso camuffate dietro false apparenze, com’è il caso del male di Vittorio. Aldo, invece, chirurgo carismatico dal robusto autocontrollo, dopo tanti successi si trova inaspettatamente a convivere col sapore amaro dell’errore, ossessionato dal perfezionismo tradito.

Le vicende dei due amici si snodano lungo trent’anni di amori, rimpianti, ricordi, colpe, inganni, ambizioni e brucianti invidie, fino alla linea d’ombra della maturità. Perché per loro, ma probabilmente per tutti noi, la vita è una colluttazione quotidiana con una complessità da cui non è mai concesso distogliere lo sguardo.

A Carlo Patriarca, scrittore e medico anatomopatologo come Bruno, uno dei suoi protagonisti, chiediamo prima di tutto cos’è la curva di sopravvivenza che dà il titolo al romanzo:

«La curva di sopravvivenza a cui allude il titolo richiama le curve che popolano con i loro grafici cartesiani gli articoli di medicina. Ma a me interessava contrapporre a queste curve collettive, afflitte dall’intrinseca debolezza emotiva della statistica, le curve individuali dell’esistenze private di medici e pazienti. La curva che volevo raccontare è quella che noi imprimiamo alle nostre vite per superare le difficoltà ma che ci espone al pericolo, come la curva di un tornante di una strada di montagna salita in bicicletta».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Bruno è anatomopatologo come lei. Quanto c'è in lei di Bruno e quanto c'è di autobiografico nel romanzo?

«Il mestiere che facciamo finisce per plasmare almeno in parte anche il nostro carattere e io e Bruno facciamo lo stesso mestiere. Ma Bruno è molto rinunciatario e introverso, vorrei non ritrovarmi troppo in lui».

Perché all'inizio del romanzo ha messo la frase tratta dal film Il posto delle fragole di Bergman "Il primo dovere del medico è chiedere perdono"?

«Non prenda la mia per una misera furbizia, ma davvero la risposta è nel libro per chi la sa trovare, sta quasi in ogni capitolo».

Lei ha scritto soprattutto romanzi storici. Come è approdato al romanzo più intimista e contemporaneo?

«Questo testo è stato scritto circa quindici anni fa, e i capitoli che lo compongono sono nati come racconti legati tra loro dal ripresentarsi degli stessi personaggi in situazioni differenti. Nello scriverli ho risposto a una spinta narrativa (che in alcuni capitoli è diventata etica) parlando in verità di cose solo in apparenza più vicine a me di quanto non fossero quelle dei libri usciti in seguito. Poi il testo è rimasto nel mio computer e negli anni ho fatto solo qualche timido tentativo di pubblicarlo, ma ero io stesso poco convinto. Di recente l’ho ripreso modificandolo un po’ e mi sono detto che avrei voluto lasciare una testimonianza che almeno in parte riguardasse il mio mestiere di anatomopatologo, che non consiste - come molti credono - nel fare le autopsie, ma nel diagnosticare malattie, spesso tumorali e qualche volta mortali. Così, tramite il mio agente, mi sono deciso a sottoporlo all’editore».

Cosa lega la professione di medico a quella di scrittore?

«Ci sono illustri esempi di medici scrittori, davvero troppi e troppo alti per farne un elenco, in Europa come in Russia e in America, almeno. Molti di loro non hanno scritto affatto di malattie, come invece avrebbe voluto Virginia Woolf quando scrisse: ‘Considerato quanto sia comune la malattia, […] appare davvero strano che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Si crederebbe che romanzi interi fossero dedicati all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; odi alla polmonite; liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni […] la letteratura fa del suo meglio perché il suo campo di indagine rimanga la mente; perché il corpo rimanga una lastra di vetro liscio attraverso cui l’anima appaia pura e chiara’. Però nella scrittura dei medici scrittori, nei loro personaggi, avverti sempre la presenza di corpi che agiscono, che si tratti dello slancio di organismi giovani, delle disavventure e degli sfoghi risentiti procurati dai nervi e dalla pancia, o del peso e della lentezza di vecchi afflitti da cattiva digestione e insonnia cronica. E questo accade anche in tutta la grande letteratura di autori non medici, per la quale il corpo non è mai una lastra di vetro liscio. Lo ammise anche Simenon, invitato a parlare a un congresso medico: ‘La verità è che noi e voi, romanzieri e medici, guardiamo l’uomo dallo stesso scorcio prospettico’».

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