M ille o forse più anni fa, nel breve tempo della mia giovinezza, Pasqua non era soltanto la grande festa cristiana. Era la festa della primavera, della luce, della pace dopo una terribile guerra. Era il sorriso dopo il pianto. Era festa corale da vivere nella dimensione del sacro e in una temperata allegria profana. Alla festa partecipavano oltre ai presenti anche gli assenti richiamati in vita dai ricordi di chi non voleva dimenticare. Come ogni festa aveva i suoi colori, i suoi sapori, le sue luci. Nei giorni di Pasqua, con l’esplosione primaverile della natura, i giovani tornavano al passeggio serale nelle vie dello struscio, caratteristico delle città di provincia. I ragazzi corteggiavano le ragazze e talvolta partiva qualche fischio di approvazione. Le ragazze fingevano di non gradire; ma quando non accadeva se ne dispiacevano. Eravamo poveri ma belli, come in quel film in bianco e nero. Nessun catechismo sociale ci imponeva comandamenti e regole di comportamento nelle piccole cose del vivere quotidiano. Eravamo ancora politicamente scorretti. Quella Pasqua riposa oggi nei fondali della memoria. È stata soppiantata da una festa frenetica che ha il ritmo dei nostri tempi. Giusto così: il passato è vana nostalgia; anche nel progresso c’è felicità. Soltanto per chi oggi ha un’età grave il ricordo di quella Pasqua ha il fascino del mito.

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