I n questi giorni un articolo su unionesarda.it dedicato ai dolci sardi li stimava in 246. È un numero abbastanza sbalorditivo, soprattutto se si considera che in moltissimi casi gli ingredienti alla fin fine sono sempre quelli, ereditati se non da un passato neolitico quantomeno precolombiano: è un po’ come mandare in passerella trenta collezioni autunno-inverno usando solo velluto, cuoio, pizzo e poco più.

E chissà quanti sarebbero – ti suggeriva poi quella fase stuporosa, quasi psichedelica che accompagna la digestione del pranzo pasquale – se all’anagrafe della gastronomia isolana aggiungessimo anche quelle specialità inventate di sana pianta dai tassisti romani e da altri sardi autoproclamati, che orecchiano i nomi delle nostre specialità durante una o due concitate settimane agostane e poi ti attaccano dei bottoni surreali elogiando la tenerezza delle schiacciadas, la croccantezza della cotenna del suporceddu e via così, straparlando della seadas - rigorosamente al plurale – e il potere digestivo del filospinadu.

C’è un’intera galassia di Sardegne inventate, distorte, fraintese, accomunate solo dalla loro pretesa autenticità. E a contarle ti assopisci, in un dopopranzo pallido e assorto, mentre ti passano davanti saltando una staccionata di sughero, tutte in fila come pecore in cappotto. E berritta.

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