Dino Buzzati conosceva bene quelle montagne, perché era nato a Belluno, appena qualche chilometro più in là: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui», sibilò il giornalista-scrittore, autore del Deserto dei Tartari, con una metafora cruda e efficace. «Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi». 
Nove ottobre 1963, la notte dell’inferno sulle Prealpi del Piave, «una delle più grandi tragedie per fatto unico della storia dell’umanità in tempo di pace»: poco dopo le 22 e 30 in una notte buia di morte una parete del Monte Toc frana nel bacino sottostante del Vajont e provoca una colossale onda di piena che supera la diga: il fiume di fango alto decine di metri in pochi minuti spazza via interi paesi e inghiotte 1910 vite, più di quattrocento bambini. Longarone, centro simbolo della catastrofe, viene completamente cancellato dalla furia del costone di montagna precipitato sul Vajont.

Sessant’anni fa 

Sono passati sessant’anni ma resta aperta la ferita che ha segnato per sempre la comunità della valle del Piave, ancora alle prese con gli incubi di una tragedia evitabile, figlia di una sequenza assurda di errori umani. Gli oltre trent’anni di progettazione (iniziata negli anni Venti) non sono serviti a prefigurare i reali scenari della diga concepita a ridosso di un’area a forte rischio smottamenti. Sino all’elemento cardine della sciagura: all’apertura dei lavori, nel 1957, si decise, con calcoli superficiali, di ampliare di oltre un terzo la portata del bacino sul fiume Vajont. Il collaudo venne fatto con un pressapochismo inaudito nel 1960 con un accumulo d’acqua secondo livelli ben più alti dei margini di sicurezza. Non venne neanche predisposto alcun tipo di sistema di allarme né un piano di evacuazione delle popolazioni delle zone a rischio. Così quando una massa di 260 milioni di metri cubi di terra si staccò dalla parete del monte Toc non ci fu nessuna possibilità di far fronte allo scenario apocalittico che si delineò in quella notte di autunno. Il bacino troppo pieno provocò uno sversamento immane che investì Longarone e le frazioni vicine. Il paradosso più perverso: la diga resse all’onda d’urto e rimase intatta. E sessant’anni dopo è ancora lassù, incastrata tra la pareti strette della montagna, testimone muta del disastro del Vajont, delle vite spazzate via, dei tanti corpi rimasti senza nome, della storia cambiata per sempre in quella valle di lacrime.

Le responsabilità 

La tragedia del 9 ottobre sconvolse l’Italia e si aprirono subito numerose inchieste. La magistratura individuò le responsabilità, accusando di disastro colposo, omicidio e lesioni colpose i dirigenti e i consulenti tecnici della Sade, la Società adriatica di elettricità, che si occupò  della progettazione e della realizzazione della diga e del bacino. Il processo si concluse del 1972 con un paio di condanne miti (diciotto mesi), anche se tutti i rilevamenti processuali accertarono che la tragedia del Vajont fu frutto di un susseguirsi incredibile di errori umani e che quindi non doveva accadere. Nel 2001 la tragedia della valle del Piave è diventata anche un film realizzato da Renzo Martinelli che ha acceso i riflettori su tanti aspetti oscuri del disastro, a partire dal 1959-60, quando la diga era in via di completamento prima dell’entrata in funzione. Inquietante soprattutto il ricordo delle inchieste della giornalista dell’Unità Tina Merlin: nei suoi articoli aveva segnalato a più riprese le incongruenze del progetto e dei rischi che correva la popolazione di Longarone e dei piccoli centri vicini. Appelli vani, caduti nel vuoto. Anzi: la reporter veneta venne addirittura denunciata dalla Sade «per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico». Merlin, allora 34enne, venne assolta nel 1960, ma i suoi tentativi di spingere le istituzioni a rivedere il funzionamento del bacino del Vajont rimasero lettera morta. Così come i dubbi di tanti cittadini della zona, che per settimane segnalarono gli scricchioli sinistri del monte Toc. Fino all’inferno del 9 ottobre 1963, scolpito per sempre nelle storie più nere d’Italia. 

© Riproduzione riservata