C’è un cagliaritano ad Harvard che scala i gradini dell’eccellenza nel campo della Cardiologia. Si chiama Enrico Ferro, ha 33 anni e un curriculum così prestigioso che il 20 dicembre scorso gli è valso la nomina a Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, onorificenza concessa dal presidente Sergio Mattarella a cittadini che si sono distinti in ambito sociale e culturale.

Ferro lavora alla Harvard medical school, uno dei più prestigiosi ospedali di Boston, dove sta perfezionando la sua terza specializzazione in Aritmologia, dopo quelle in Medicina interna e Cardiologia, e affianca all’attività clinica quella di ricerca. Inoltre è consulente per i presidi cardiovascolari della Food and drug administration, collabora con l’Organizzazione mondiale della sanità  sui presidi medici essenziali per le malattie cardiovascolari, si occupa di progetti umanitari in campo sanitario.

Maturità al liceo dell'Istituto salesiano Don Bosco (massimo dei voti), nel 2010 è stato uno dei 12 europei e dei due italiani ad essere ammesso all'università di Yale, dove è entrato superando la concorrenza di 28mila studenti. Ogni anno è stato tra i migliori studenti, ha ricevuto premi e borse di studio e nel 2014 ha conquistato, summa cum laude (cioè il massimo della lode), il baccalaureate , la nostra laurea breve (che però è quadriennale) in Biologia molecolare ed evolutiva. Poi, tra esperienze formative in Perù, in Marocco, ha fatto domanda nelle migliori università degli Usa ed ha scelto la Harvard medical school per i quattro anni successivi: due pre-clinici e due clinici con un lavoro quotidiano durissimo, sino a 80 ore alla settimana in reparto con responsabilità vere, seppure supervisionate. 

Enrico Ferro ha sempre saputo che avrebbe fatto il cardiologo. «Ho un fratello nato con una cardiopatia congenita e sono cresciuto percependo fin da bambino la sofferenza della malattia, la paura associata con l'eventualità della morte. Ho toccato con mano come la vita delle persone può essere stravolta dalla disabilità e tutto ciò mi ha motivato a ricercare l'eccellenza nella pratica medica, con l'obiettivo di migliorare il futuro delle prossime generazioni».

Il fatto che sia sempre stato eccellente tra i migliori fa pensare a un genio, a una macchina che macina record e premi senza difficoltà. Non è così. «In ogni giorno di questo percorso ho avuto e continuo ad avere difficoltà. Per vari motivi: il ritmo estenuante di studio e di lavoro, sino a 90 ore alla settimana, mette a dura prova mente e corpo. Inoltre la continua competizione in un ambiente affollato da persone estremamente capaci e motivate può rendere difficile ritagliarsi lo spazio per continuare ad inseguire il proprio sogno: l'effetto collaterale della meritocrazia è che il rischio di essere tagliati fuori rimane sempre presente. Infine la distanza dalla propria famiglia, dalla propria casa e dalla propria terra. Nonostante gli anni continuino a scorrere, rimane sempre difficile l'aver lasciato la stabilità affettiva, economica e socioculturale del proprio mondo, per partire di fatto alla scoperta dell'ignoto».

E infatti nonostante abbia le porte dei migliori ospedali del mondo spalancate, sogna di tornare in Italia. «È nel mio Paese che vorrei poter condividere le conoscenze ed abilità acquisite durante il mio percorso, anche collaborando con la classe politica o dirigente per migliorare il sistema sanitario».

Enrico Ferro è una persona umile. E se gli si chiede che cosa consiglia ai suoi conterranei risponde innanzitutto di essere disponibile ad essere raggiunto su twitter (@enricogferro). Poi aggiunge: «Iniziate a costruire il vostro percorso prima possibile, cercate di individuare ciò per cui siete portati e valorizzate da subito le vostre abilità. Nessun grande obiettivo si può raggiungere senza pianificare come affrontare le tante piccole sfide che si presentano nel proprio percorso», dice. «È importante individuare una figura-modello da seguire: che sia un ragazzo più grande di noi, un genitore o un premio Nobel, sarà di grande aiuto trovare un esempio concreto. Un altro consiglio», prosegue, «è essere umili nel rapporto con il prossimo: abbiamo qualcosa da imparare da tutti. Infine studiate le lingue: rappresentano la chiave di accesso per diventare cittadini del mondo, e ci permettono di entrare in contatto con opportunità professionali, culture e modi di pensare». Lui ne parla tre: inglese, spagnolo e tedesco.

Oggi Ferro è un medico che pensa in modo trasversale. Lavora per 90 ore in ospedale («anche 36 ore di seguito, negli Usa è normale») ma oltre a operare, assegnare cure e risolvere le criticità che ogni giorno si presentano in corsia, pensa a come innovare le cure e migliorare la qualità della vita dei pazienti, anche attraverso nuovi farmaci e nuovi presidi. «Per questo servono abilità trasversali ed è questa la ragione per cui collaboro con la Fda e con l’Oms. Pensi al Covid: quando iniziò a diffondersi il virus in tutto il mondo serviva un vaccino e qualcuno ha avuto l’abilità di trovarlo. Ma poi occorre dimostrare che funziona, servono studi randomizzati e io ho vissuto questa esperienza lavorando alla Boston scientific corporation, nello stesso tempo lavorare per un ente regolatore come la Food and drug administration consente di ragionare trasversalmente, di vedere un problema da tanti punti di vista».

Da dieci anni Ferro fa costantemente attività di ricerca sullo shock cardiogeno al centro Smith della Harvard medical school ed ha accesso a database assicurativi che contengono i dati di milioni di pazienti americani grazie ai quali è possibile studiare gli effetti di farmaci e presidi e migliorarne la qualità, studiare evoluzioni. «Come le polipillole, cioè farmaci antipertensivi che contengono vari principi attivi. Insomma, è come avere una pillola che ne contiene tante».

Viene da chiedersi quale sia la giornata tipo di una persona come lui: «Il segreto è la pianificazione rigorosa. Dormo mediamente sei ore al giorno e mi sveglio alle 5 e sino alle 7, quando arrivo in ospedale, parlo con colleghi dell’Oms in Svizzera o in Europa o, a mente libera, scrivo o progetto. Poi il giro pazienti, la sala operatoria sino alle 19. Nei fine settimana quando posso vado a sciare o esco con gli amici, compatibilmente con il cercapersone, ma spesso lavoro. Viaggio moltissimo per congressi in tutto il mondo. Sto costruendo la mia carriera e voglio fare il massimo. A breve, quando finirò l’ultima specializzazione, dovrò negoziare il mio contratto e voglio farlo da una posizione forte. Negli Usa gli ospedali sono solo privati e quello dei medici è un libero mercato. I manager ragionano come le banche: quando ci si presenta per ottenere una posizione si elencano le proprie credenziali, le pubblicazioni, insomma il curriculum, e loro, se decidono, investono su di te. Oggi uno specializzando guadagna inizialmente 65mila dollari e arriva a 100mila ma è tutto rapportato al costo della vita. In Europa con il mio stipendio attuale sono benestante, a Boston, dove una stanza in affitto costa 2500 dollari». Negli States c’è una certezza: si investe sui giovani come lui. «C’è una costante spinta al rinnovamento e si progetta il futuro con loro». In Italia è esattamente il contrario.

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