Quaranta, sessanta secondi dal momento in cui mettiamo il sapone sul palmo a quando chiudiamo il rubinetto (che va toccato con l’asciugamano). Un accurato lavaggio delle mani è la prima regola salvavita, la misura più importante e facile, avvisa il ministero della Salute, «per evitare la trasmissione di germi potenzialmente o certamente patogeni e prevenire le infezioni». Una buona pratica che va rafforzata e per questo l’Organizzazione mondiale della Sanità promuove una Giornata mondiale dell’igiene delle mani, che ricorre il 5 maggio.

Un gesto facile per noi, così non è purtroppo per centinaia di milioni di persone nel mondo, laddove manca ciò che è necessario: il sapone, e soprattutto l’acqua pulita. Rileva un monitoraggio congiunto Oms-Unicef che, «circa 818 milioni di bambini non hanno la possibilità di lavarsi le mani nelle loro scuole, il che li mette a rischio di Covid e di altre malattie trasmissibili. Più di un terzo di questi bambini, 295 milioni, proviene dall’Africa subsahariana. Nei Paesi meno sviluppati, sette scuole su dieci non dispongono di servizi igienici di base per il lavaggio delle mani e la metà delle scuole non dispone di servizi igienici e idrici di base».

Da questa parte del mondo, dove siamo ben più fortunati, c’è tuttavia ancora bisogno di ricordare l’importanza del lavarsi bene, e frequentemente, le mani. Una regola che va ricordata persino al personale sanitario, considerato che l’Italia è tra i Paesi europei quello col più alto numero di decessi correlati a infezioni ospedaliere e antibiotico-resistenza: 11mila morti l’anno. Infezioni provocate da germi multiresistenti agli antibiotici che causano ogni anno una media di 5 milioni di morti a livello globale.

E pensare che l’effetto salvavita di un gesto così semplice è stato una delle scoperte più importanti della storia della medicina. La dobbiamo al dottor Ignaz Semmelweis, ginecologo ungherese che per primo intuì l’importanza degli sciacqui col sapone e dell’uso del disinfettante. Un merito che tuttavia gli verrà riconosciuto solo dopo la morte.

Aveva 28 anni quando, nel 1846, fu nominato assistente del dottor Johann Klein, primario della clinica di ostetricia dell’ospedale generale di Vienna, all’epoca uno dei più grandi e moderni del mondo, dove oltre che in corsia gli studenti facevano pratica nel laboratorio di anatomia patologica dove venivano dissezionati i cadaveri delle donne.

Bisogna immaginarsi gli ospedali del tempo, anche i più importanti, come luoghi non perfettamente puliti, dove le pratiche mediche e chirurgiche ancora non potevano giovarsi degli studi di Pasteur, di Lister e di Koch che sarebbero arrivati anni dopo. Le donne ricoverate nel reparto di ostetricia, in particolare, morivano come mosche dopo il parto (con percentuali del 15, 20%) per la temibile febbre puerperale, malattia di cui non si conosceva la causa (e che, oggi lo sappiamo, può essere causata da batteri come lo streptococco o l’escherichia coli che infettano l’endometrio, la mucosa della parte interna dell’utero).

Il dottor Semmelweis cominciò a notare qualcosa di molto strano: accadeva che nella prima divisione del reparto, quella in cui prestava servizio e dove le donne venivano assistite dai medici e dagli studenti specializzandi, la percentuale delle pazienti colpite dalla malattia e poi morte era altissima. Nella seconda divisione, invece - dove l’assistenza anche durante il parto era delegata alle ostetriche e alle suore -, il tasso di mortalità era quasi vicino allo zero. Perché? La risposta, per meglio dire l’intuizione, arrivò durante l’autopsia sul cadavere di un suo collega, il dottor Jacob Kolletschka, morto dopo essersi ferito con il bisturi mentre esaminava il cadavere di una puerpera uccisa dalla febbre.

Le lesioni sul corpo del medico e sulla giovane mamma erano le stesse. Dovevano avere anche la stessa origine, pensò Semmelweis. Ma quale? Cosa poteva accomunare un medico del reparto di ostetricia e una delle donne morte dopo il parto? E se questo filo rosso partisse dalle autopsie? Se ci fosse qualcosa che contamina le puerpere? Qualcosa che viaggia dai cadaveri alle pazienti direttamente sulle mani dei medici che le assistono, concluse Ignaz Semmelweis. Si era accorto che i colleghi e gli studenti che passavano dal tavolo anatomico alle visite in corsia non si lavavano le mani, oppure lo facevano in maniera molto frettolosa. Non poteva che essere questa, rifletté, la causa della morte di tante madri.

L’unico modo per dimostrarlo era un esperimento che doveva durare alcuni mesi, e per questo chiese l’autorizzazione alla direzione dell’ospedale. A quel punto preparò le prescrizioni per il personale sanitario e ordinò che tutti i medici e gli specializzandi che rientravano in corsia dopo la dissezione di un cadavere in obitorio si lavassero le mani con una soluzione disinfettante a base di cloruro di calce. A parte questo, Semmelweis ordinò il cambio di lenzuola per ogni partoriente. Era maggio del 1847. Finito il periodo di sperimentazione, all’ospedale generale di Vienna la mortalità tra le puerpere era crollata all’1%.

Nonostante i risultati, però, Semmelweis venne licenziato. Perché fu adottato un provvedimento così drastico? Alla base c’era sicuramente una motivazione di tipo politico: Ignaz Semmelweis era un nazionalista e nel 1848 aveva partecipato ai moti indipendentisti ungheresi, ma a parte questo la teoria della disinfezione delle mani non era certo piaciuta agli accademici e ai baroni della medicina, i quali non accettavano l’idea che a portare le infezioni e la morte potessero essere i medici. Poteva forse dimostrarlo Semmelweis, al di là degli esperimenti? Ancora no, purtroppo. La correlazione tra germi e malattie l’avrebbe dimostrata vent’anni più tardi il chimico francese Louis Pasteur, padre della microbiologia. Semmelweis lasciò dunque Vienna e tornò in Ungheria, a Pest, la sua città natale. Qui fu chiamato a dirigere il reparto di ostetricia dell’ospedale San Rocco dove in breve tempo il tasso di mortalità delle puerpere calò sotto l’uno per cento. Un successo dopo l’altro, eppure ancora una volta venne screditato e isolato dalla comunità scientifica. Un ostracismo che finì per minare la sua salute mentale. Appena 46enne, morì in manicomio. Il suo valore di medico e scienziato venne riconosciuto anni dopo, quando gli esperimenti di Pasteur dimostrarono la correlazione tra batteri e infezioni. Ma il suo nome è rimasto come un monito contro le chiusure dogmatiche e i pregiudizi. “Effetto Semmelweis” è il rifiuto di nuove evidenze scientifiche che fanno vacillare il sapere radicato, lo status quo. La reazione di chi teme il confronto.

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