Gustavo Giagnoni è mantovano d'adozione. Ma resta cittadino di Olbia, città dove è nato nel 1932. «Vivo a Mantova da quando avevo 25 anni: qui ho moglie e figli, ma sono sardo». Nel grande libro del pallone sarebbe un peccato mortale saltare il capitolo dedicato a Giagnoni, uno che solo una volta ha fatto marcia indietro.

Era ragazzino e frequentava il seminario di Tempio. Studiava per diventare sacerdote, salvo tirar su la tonaca quando tornava a Olbia per giocare a pallone. Tre anni di seminario, come raccontano Gazzoli e Sogliani nel libro "Gustavo Giagnoni. Calci, carezze e sgambetti ". Ma alla fine ha preferito calzoncini, maglietta e scarpe bullonate.

Mamma Assunta ha storto la bocca. Suo figlio non era fatto per celebrare messa, ma per giocare a pallone. E lo faceva bene nell'Olbia, con l'ex campione del Mondo Gino Colaussi allenatore. L'allora cassiere dell'Olbia, Vincenzo Canu, non aveva dubbi. «Farà carriera». Nel '55, Giagnoni lascia la Sardegna: prima Reggiana, poi Mantova, dove diventerà una bandiera: in campo è il trascinatore di una squadra che, dalla quarta serie, sbarcherà in A, con Edmondo Fabbri in panchina a capo di quello che fu chiamato "il piccolo Brasile". Giagnoni incrocia Dino Zoff, che da Mantova farà il grande salto verso Napoli e la Nazionale. Proprio Zoff ricorda il forte legame con questo che viene definito "il sardo più mantovano". Così amici, Giagnoni e Zoff, che il portierone lo chiama come testimone di nozze.

La carriera calcistica di Giagnoni va avanti nel Mantova , con un piccolo break alla Reggiana nel '64-'65. Poi è ancora Mantova, dove chiude col campo per passare alla panchina. Da mediano grinta e piedi buoni ad ottimo allenatore. Gli bastano due stagioni per catturare l'attenzione del Torino, dove sbarca nel '71. E qui si entra nella leggenda, perché Giagnoni diventa l'allenatore col colbacco. «Eravamo partiti bene, poi una flessione. Nel frattempo era arrivato l'inverno e misi il colbacco. Era un regalo di un amico mantovano. Subito iniziarono le vittorie. Lo tenni per ripararmi dal freddo e anche un po' per scaramanzia. Ci giocavo».

E i giornalisti identificarono Giagnoni con quel copricapo da cosacco. Il Toro sfiorò lo scudetto in un lungo duello con la Juve, che nei derby soffriva e perdeva. E quando vinceva, le prendeva. Come avvenne a Causio. «La Juve vinse e Causio passò davanti alla panchina, sbeffeggiandomi. Gli dissi di girare al largo, non era proprio il caso". Ma visto che "continuava" il "barone" si trovò atterrato. «Gli diedi uno schiaffo e, nella spinta, caddi anche io per terra. Ci fu un parapiglia, ci divisero. A fine partita tornai a Olbia e non volli sentire nulla per due giorni. Al ritorno a Torino, fuori dal Filadelfia, trovai 500 tifosi, mi portarono in trionfo». Giagnoni cuore Toro, un idolo per quello schiaffo alla Vecchia Signora. «Con Causio poi abbiamo chiarito e fatto pace. Ma se la poteva risparmiare».

La sua carriera da allenatore lo porterà anche al Milan, dove entra in rotta di collisione con Gianni Rivera. La panchina lo riporta in Sardegna. Lo chiama il Cagliari, stagione '82-'83. «La mia delusione più grande. Retrocedemmo a 26 punti, mai successo, vittime di un imbroglio. Me lo disse anche Carletto Mazzone, in quella gara finale con l'Ascoli. "O noi o voi ". Siamo stati messi in mezzo».

Giagnoni non ha dimenticato. «Alla penultima giornata giocammo contro una Juve distratta che però vinse 2-1, dopo l'espulsione di Pileggi. L'arbitro era Bergamo di Livorno e, guarda caso, il Pisa, una squadra toscana, era in lotta per la salvezza con noi».

Ancora Cagliari nell'85. Una salvezza incredibile e poi una retrocessione inevitabile in C, dopo il -5 per le scommesse. Ma quel Cagliari centrò la semifinale di coppa Italia. «Eliminammo Juve e Toro. Il mio Toro, che porto nel cuore. Come Olbia, Mantova e Cagliari, le mie squadre». Se le porta nel cuore a Mantova. «Ma torno a Olbia appena posso. Sono il sardo più mantovano e resto innamorato della mia terra».
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