"La boxe morirà quando l'uomo nascerà senza braccia". Così soleva dire il grande allenatore catalano Franco Mulas, quello che allevò in un angusto locale di Alghero vecchia, vicino alla chiesa di San Michele, pugili di valore internazionale come Casabona, Priami, Chessa, Silanos e i fratelli Spanedda. Ma anche e soprattutto Tore Burruni, campione del mondo nei Mosca nel 1965 e uno dei pugili italiani più forti di tutti i tempi. Quella formidabile boxe sarda non c'è più. Mancano come il pane anche i vari Fortunato Manca, Piero Rollo, Franco Udella, Fernando Atzori e Tonino Puddu. Tra i più recenti Simone Maludrottu. Solo per citarne alcuni. Uno degli ultimi più validi alfieri della boxe isolana è certamente stato Tore Erittu, 41 anni da Porto Torres, ex campione italiano professionisti dei Massimi e dei Massimi leggeri. Categorie certamente inusuali per i pugili sardi, spesso dominatori, per conformazione genetica, dai Mosca ai Welter. Erittu ha conosciuto tante vittorie e qualche cocente sconfitta, ma si è sempre rialzato. Nemmeno una terribile fibrillazione atriale gli ha preso il sopravvento. Tore ha battuto quindi anche il destino avverso, come gli uomini veri lo ha affrontato e spazzato via. Prendendosi di nuovo la Corona e ritirandosi lasciandola vacante. Da qualche anno a Sassari è un apprezzato preparatore. Il suo quindi è un osservatorio privilegiato della boxe. 

Qual è lo stato del pugilato sardo? 

“Certamente ha vissuto momenti più floridi e felici. Tuttavia nell'isola sono presenti più di 100 società e tante persone si sono avvicinate a questa disciplina. Certo, palestre sicuramente frequentate, ma pochi agonisti”.

È la verità?

“Si, è così. Trovo però importante che molti ragazzi e non solo facciano attività fisica sana, imparando i rudimenti di una disciplina nobile e difficile come il pugilato”. 

Però per essere considerato pugile vero bisogna salire sul quadrato e affrontare un avversario che ti vuole battere.  

“Questo è il bello. Combattere sul ring è difficile, ben differente dal limitarsi all'esecuzione delle figure. Sul quadrato saprai innanzitutto cosa vuol dire essere solo. E bisogna vincere questa paura, che qualsiasi pugile ha avuto. Oltre alla tecnica e preparazione occorrono testa, cuore e fegato”. 

Pochi possiedono dentro queste doti. 

“Ostico riunire queste qualità. E i tempi sono nel frattempo cambiati. I social hanno stravolto il nostro modo di essere, compreso l'approccio allo sport agonistico. Poi ci sono i sabato sera, le bevute con gli amici, i locali. Cose che mal si conciliano con uno sport di grande sacrificio come il pugilato”.  

C'è in prospettiva qualche pugile interessante nell'Isola? 

“Certamente. Tra i dilettanti Elite Federico e Giammario Serra sono boxeur di ottime prospettive. Mi piace anche il cagliaritano Patrick Cappai e il Welter sassarese Matteo Ara. Tra i professionisti cito Cristian Zara e l'esperto Alessandro Goddi. Ma ce ne sono anche altri”. 

Eppure in linea generale risultati di rilevo stentano ad arrivare. 

“Soffriamo purtroppo ancora la nostra insularità ed è sempre difficile confrontarsi con altre realtà. Ma il problema vero è la mancanza di vocazioni. E si torna sempre al punto di partenza”.  

A Sassari come si vive il pugilato? 

“Ci sono 12 società e tra di noi c'è una sana rivalità sportiva. La mia palestra è frequentata da centinaia di praticanti, anche donne, e non più di 10 agonisti. Ma io sono contento lo stesso. Assieme al mio staff abbiamo ad esempio recuperato tanti ragazzi obesi, che ora dopo mesi di preparazione e sacrificio hanno ritrovato se stessi e un equilibrio psicofisico invidiabile. Di questo siamo orgogliosi”.

A Erittu manca il ring?

“Ho vinto sfide che sembravano perse. Messo a tacere gli scettici e mi sono tolto tante soddisfazioni. L'attività agonistica è stata una parte importante della mia vita. Ma bisogna saper smettere. E allevare talenti. Che ancora, nonostante tutto, ci sono”.  

© Riproduzione riservata