Marathon de Sables: Stefano Frau costretto alla resa
Una tempesta di sabbia costringe al ritiro l’atleta cagliaritano dopo sole tre tappe della difficilissima competizione nel deserto
Stefano Frau durante la sua avventura nella marathon de sables (foto Andrea Serreli)
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“Il deserto non è un luogo. È un organismo vivente che cambia umore, che non vuole essere disturbato, che pretende rispetto”. Sono parole di Stefano Frau, cagliaritano, imprenditore sul settore informatico per le farmacie, al termine dell’esperienza con la Marathon de Sables, non portata a termine per i motivi che racconta. “Sono arrivato al campo concentrato. Attraversare la distesa di sabbia per 250 chilometri, giungere al traguardo, vincere l’ostilità della natura. Ho fatto tutto come previsto durante la preparazione. Per un giorno e mezzo cerco di ambientarmi, fare amicizie, e prepararmi mentalmente alla prima tappa”.
La partenza. Finalmente si parte per i primi 30 chilometri. “Sono nervoso, emozionato, euforico”, continua. “Ci sono 40 gradi, resisto, arrivo al bivacco. Preparo la cena. La notte arriva come un sipario che si chiude all’improvviso. Buio e silenzio assoluto. Il pensiero va alla seconda tappa, 38 chilometri su terreno misto. Riprendo il percorso, supero il primo check point, fin qui tutto bene”.
La tempesta. Poi, il deserto si sveglia, si alza un vento forte, la superficie sembra un corpo che respira. “Il mio fisico cerca di adattarsi alle nuove condizioni, ma cede. Vomito, bevo, vomito ancora, inizio a disidratarmi. Il vento supera i 60 chilometri orari, la sabbia si solleva e forma un muro impenetrabile. Arrivo al secondo check point solo con la forza di volontà. Chiedo aiuto ai medici. Due flebo per contrastare la disidratazione. Dopo circa due ore mi rimetto in marcia”.
Il caldo torrido. La temperatura aumenta ancora, l’umidità scende al 5%, il vento rinforza. “Ci proteggiamo dietro le jeep dei commissari e dei medici. Provo a terminare la tappa, mancano 5 chilometri, che sarebbero pochi in qualunque altro luogo. Qui, sono ancora 3 ore di marcia. L’istinto è quello di non arrendermi ma le condizioni sono critiche e devo pensare alla mia famiglia. Alla promessa che ho fatto di essere responsabile e di tornare a casa. L’immagine di chi mi aspetta per riabbracciarmi ha il sopravvento.
Il ritiro. Raggiungo una jeep e dichiaro il ritiro. Mi portano al bivacco, dove passo la notte. Il giorno dopo raggiungo l’albergo a Ouarzazate. Avviso mia moglie. Mi ci vorrà tempo per comprendere cos’è successo, per metabolizzare la sconfitta”.