Prima un collega cui improvvisamente si ammala un familiare, che dopo qualche giorno muore. Poi un altro collega, 40 anni, ucciso dal virus da un giorno all'altro. Poi la vicina di casa, una donna sui settant'anni.

La fabbrica chiusa, la normalità trasformata in un incubo, l'ipotesi del contagio che si fa dannatamente reale: «Si vive con l'incertezza e la paura», dice. Barricato in casa. Fuori, il silenzio delle strade vuote rotto solo dalle sirene e delle campane a morto. Marco Pittau, 52 anni, originario di Siliqua, parla dal cuore della pandemia. Dal 2003 vive nella provincia di Bergamo, precisamente a Levate, 3.700 abitanti, dove lavora in una fonderia: manutentore meccanico.

Tutto in due mesi

«Agli inizi di febbraio - ricorda - si parlava solo dei casi di Codogno. C'era molta apprensione. Verso metà mese un mio collega, mentre si trova a lavoro, viene richiamato a casa: un familiare sta male. Febbre alta. Rientra in fabbrica dopo due giorni. Purtroppo il familiare dopo poco tempo muore, non abbiamo mai saputo se a causa del coronavirus: il tampone non è stato eseguito. Non potevamo neanche sapere se il nostro collega potesse essere stato contagiato. Per fortuna in fonderia gli standard di sicurezza sono elevati: si lavora con mascherine efficienti, nella mensa e nelle docce si entra a piccoli gruppi». Ma il virus dilaga in maniera esponenziale in tutta la Lombardia: «A Levate il contagio diventa una preoccupazione costante. Agli inizi di marzo in un giorno medio si registrano quattro decessi: tutte morti avvenute in casa, senza tamponi, e questo non fa che aumentare dubbio e paura». Nella fabbrica, tra malattia e ferie, si dimezzano le presenze dei lavoratori: «Le disposizioni impongono la quarantena a chiunque sia entrato in contatto con persone positive al Covid-19. Tra questi potrebbero esserci i miei colleghi».

Un giorno drammatico

Il 23 marzo in fonderia è l'ultimo giorno di lavoro prima della chiusura: «La mattina apprendo che un collega di 40 anni è in terapia intensiva a Monza. Dopo poco muore, lasciando moglie e figli. Nessuno di noi sapeva che fosse malato». La preoccupazione sale in serata, al rientro a casa: «Verso le 20 sento le sirene dell'ambulanza, poco dopo rumori al di là della porta di casa mia. Qualcosa sta succedendo ai miei vicini. Nel pianerottolo vedo personale sanitario con addosso i dispositivi di protezione soccorrere una donna di circa settant'anni che vive nell'appartamento a fianco con il marito e la figlia. La donna, purtroppo, muore in breve tempo. Per la paura di essere contagiato ho trascorso una settimana senza varcare la porta di casa in attesa della sanificazione degli ambienti. Vivo da solo. Nell'eventualità di una crisi respiratoria da contagio, spero di aver la forza di chiamare i numeri di emergenza».

Fra le mura di casa

Marco continua la sua vita protetto dalle pareti domestiche: «Occorre tanta forza mentale per superare questa situazione. Come trascorro il tempo? Riposo, cucino, faccio qualche lavoro domestico e un po' di esercizio alla bici sui rulli. Libri, riviste, poca tv e internet». In attesa di sapere quando potrebbe riprendere il lavoro sa di dover convivere ancora a lungo con l'emergenza. «In questi anni sono ritornato spesso a Siliqua, per visitare mia madre Elvira, mia zia Giovanna e il resto della famiglia. Avevo programmato di ritornare anche per Pasqua ma, per la loro tutela, dovrò rinunciare a vederli per diverso tempo».

Angelo Cucca

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