Nel mondo che cambia, nell'Italia che cambia, nel ciclismo che cambia, una sola cosa è rimasta immutata. La fatica, quella non cambia: continua a piegare i telai delle biciclette, a contorcere i volti dei corridori, a esaltare i tifosi nel ruolo - anche etimologico - di sostenitori, e soprattutto a decidere a chi spetti il bacio della vittoria.

Non fatevi ingannare dal progresso che ha reso le corse più colorate, più luccicanti, più tecnologiche. Il campo di gara è rimasto lo stesso e non sono soltanto le strade, che sono passate da bianche a nere, per poi tornare bianche in un masochistico esercizio di ricerca dell'epica passata, dello show a tutti i costi. Lo scontro è e rimarrà sul terreno della fatica. Chi la tollera con maggiore tenacia, chi la sa gestire, che l'ha educata meglio nei mesi invernali, ha la speranza di vestirsi di rosa sul palcoscenico prestigioso e iconico dell'Arena di Verona. Gino Bartali la conosceva bene e non la temeva: «Non farti mai spaventare dalla fatica», disse una volta a Cagliari, sugli scalini d'ingresso dell'Unione Sarda, allora in viale Regina Elena, a un cronista poco più che ventenne che gli rivelò l'hobby del pedale. Nessun corridore può permettersi questo lusso. La fatica è l'anticamera del premio, l'obolo da pagare per la soddisfazione personale, il green pass per il podio, se vogliamo usare un termine attuale. Ed è smaccatamente democratica.

Se deve garantire il rispetto a chi la sopporta, vuole farlo con tutti, dal fuoriclasse all'amatore. Chi fa fatica va tenuto nel giusto conto. Per questo il ciclismo è lo sport in cui il pubblico tifa per tutti, oltre che per il proprio beniamino. Nessun corridore, al Giro come in qualunque altra corsa, viene deriso mentre è impegnato nel suo sforzo. Il tifoso sa bene che il suo è un supplizio volontario. Non gliel'ha ordinato il medico di diventare corridore: ci sono mestieri in cui si suda meno, si sbuffa meno e spesso si guadagna anche di più senza dover prendere pioggia, neve, vento, sole, freddo e caldo, magari tutti insieme nella stessa giornata. E men che meno è nell'obbligo di sottoporsi a quello sforzo chi la bici la prende per svago, per quella che (non a caso con duplice significato) si definisce passione.

Il Giro d'Italia serve anche a ricordarci questo. Una bicicletta sulla strada porta con sé un patrimonio di valori e cultura, anche quando non è usata come mezzo di trasporto. Anzi, a maggior ragione. Chi pratica il ciclismo (sport della strada) in modo turistico, amatoriale o non agonistico, è contagiato dallo stesso germe del corridore di carriera. Chi ne incrocia uno per strada, magari dall'alto del sedile di un camion o di un suv (o un'auto, è la stessa cosa) sappia che su quel sellino si sta svolgendo un piccolo Giro d'Italia personale, e abbia la stessa simpatia che si prova verso i campioni. Il ciclismo professionistico in questi anni è diventato più pericoloso, le corse sono più veloci, la voglia di vincere è aumentata con l'aumentare di candidati legittimi per riuscirci. Ma la bicicletta nel traffico delle nostre strade non è mai una minaccia. È solo una piccola cartolina che recapita a chi la guarda il messaggio di un grande romanzo popolare.

Carlo Alberto Melis 

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