«L’insularità è la soluzione, non il problema»
Maria Antonietta Mongiu, presidente del Comitato scientifico Insularità in CostituzionePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
L’insularità come autodeterminazione, in una Sardegna dove persino «le tradizioni sono ridotte a spettacolo», dice Maria Antonietta Mongiu. L’antichista. Intellettuale e studiosa di lungo corso. Commendatore un anno fa su decisione di Sergio Mattarella. E prima, nel 2017, Ufficiale al merito per ragioni scientifiche e culturali. «Siamo nella fase dell’autocolonizzazione», è uno dei passaggi del ragionamento che guarda alla geografia come occasione. Di oggi per domani. La prospettiva viene ribaltata. L’insularità non è più solo la causa dello sviluppo lento, ma diventa soprattutto la soluzione. La via della salvezza. Anche rispetto a quel decadimento dei tempi tracciato fuori dalla Sardegna. Dall’Ocse Pisa, precisamente. È l’indagine internazionale che misura le competenze degli studenti quindicenni. «La nostra Isola è ultima in Europa». In mezzo al Mediterraneo, con Cagliari capoluogo, «le comunità educanti sono in crisi. Vuol dire la famiglia, la società, le parrocchie». Alla professoressa, gli indicatori sociali al ribasso e le derive socioculturali erano chiari da molto. E anche l’alternativa. «I correttivi si trovano nella costruzione di una prospettiva per il futuro». Giulia Maria Crespi, filantropa e fondatrice del Fai, non a caso assegnò a Mongiu la presidenza della sezione regionale del Fondo ambiente italiano. Il patrimonio più prezioso. E otto anni fa Roberto Frongia, avvocato e dirigente dei Riformatori, non si comportò diversamente proponendole per curriculum la guida del Comitato scientifico per l’insularità. Il riscatto. Una battaglia diventata principio costituzionale nel 2022, anche se Frongia, uno degli ideologici del percorso politico, il traguardo non fece in tempo a vederlo: morì diciannove mesi prima.
Professoressa, otto anni di presidenza sono un anniversario. Se si volta indietro, cosa vede?
«Ci unimmo per dialogare con l’opinione pubblica. Accademica e non. Abbiamo cambiato la Costituzione. Questo è accaduto perché, come poche altre volte, l’opinione pubblica informata ha trascinato la politica delle istituzioni a riconoscere finalmente quanto già recitava l’articolo 3 della Costituzione. Ovvero, nessun cittadino può essere discriminato per il luogo in cui nasce, oltre che per il sesso e per l’appartenenza religiosa. In realtà, durante settant’anni la politica sarda, anche la più autorevole e illustre, non aveva scavato abbastanza in quell’articolo. Il tema sostanziale è che noi non avevamo e non abbiamo le stesse pari opportunità degli altri italiani. E come succede e succedeva per le donne, se le cose non si nominano e si esplicitano, non esistono. L’insularità non era stata mai pronunciata, discussa nelle implicazioni materiche e simboliche che il termine contiene. Sull’insularità la carta vincente è stata la costruzione di un protagonismo di popolo che si è concretizzato nella modifica dell’articolo 119 della Costituzione».
Al Comitato scientifico è stata affidata la realizzazione del percorso; a quello politico la trattativa istituzionale e il compito di portare a casa le risorse, a compensazione dell’insularità. Missione non compiuta, quest’ultima.
«Il tema vero non sono i soldi. Che pure rappresentano uno strumento di necessità. Il tema vero è l’empowerment, cioè la presa di coscienza, da parte degli attuali decisori nei Parlamenti, tanto in Sardegna quanto a Roma, del significato di quel percorso e del valore della parola insularità. Un percorso che ha portato al ribaltamento del paradigma: la condizione geografica come fatto positivo e non negativo. Non solo perché le civiltà antiche, di cui la Sardegna è stata protagonista, sono nate nelle isole, ma il trovarsi in mezzo al mare è di per sé una risorsa paesaggistica dell’umanità. Se però manca la presa di coscienza dei significati profondi dell’insularità, i soldi non servono. Se è assente una visione di futuro, quindi la ragione di un investimento, perché mai si dovrebbero chiedere risorse? Forse per essere ancora più autocolonizzati di quanto non lo siamo già? Se non si protegge il territorio dalle rinnovabili, a cosa serve la disponibilità finanziaria? Il problema, a ben vedere, non è economico ma di autodeterminazione. Il grande Giovanni Lilliu diceva di tenersi alla larga da una Regione che riduce la sua funzione a quella di un bancomat».
Così, però, si rischia che la politica si autoassolva.
«Vero che il crollo della partecipazione è il segno di una disaffezione verso chi governa. Una perdita di fiducia. La politica, tuttavia, non fallisce mai da sola. Lo fa insieme alla classe dirigente, di cui fanno parte tutti coloro che prendono decisioni. Nessuno pensi di essere fuori da questa responsabilità. Crisi e involuzioni fotografano il nostro grado di incompetenza. Ci sono settori in cui la Sardegna è profondamente regredita. Pensiamo alla sanità, alla mobilità interna ed esterna, all’istruzione. Oltre ai risultati Ocse Pisa sulle competenze, ci sono quelli Invalsi sulle conoscenze: in Sardegna c’è una difficoltà nella strutturazione dei percorsi formativi, un fallimento che ha come esito la dispersione scolastica. Che esiste pure nel mondo sportivo. L’emergenza educativa si palesa nelle notti non gestite, un fenomeno che vediamo nei nostri centri urbani. L’inaugurazione del Brotzu, nel 1982, faceva pensare a tutt’altro sviluppo. Di colpo, grazie al grande ospedale, i sardi smisero per esempio di andare a Londra per curarsi le patologie cardiache. Da un po’, invece, l’emigrazione sanitaria è di nuovo aumentata, anche per cose molto banali».
Prima che sia tutto perduto, come si fa a costruire l’autodeterminazione?
«Mai nulla è perduto, perché nella storia finisce un mondo. Non il mondo. Noi viviamo nella presunzione dell’eterno presente, ma così non è. Ce lo insegnano gli intellettuali più militanti, da Salvatore Settis a Luciano Canfora. Una delle assenze del futuro, per citare un bellissimo saggio di Giorgio Agamben, è usare il mondo antico come fuga dalla realtà, anziché come luogo in cui misurarsi. Un luogo dove costruire la manutenzione della memoria, che ha bisogno di competenze variegate, sempre meno presenti nelle nostre università».
Esiste un punto zero nel percorso dell’autocoscienza?
«Uno degli elementi dell’insularità è la gestione del territorio. Non c’è nulla di più insulare della matericità dei luoghi. La Sardegna è un incrocio perfetto tra natura e cultura. E da lì bisogna ripartire. Quando nel 2004 il decreto Salva Coste ha avviato il percorso del Ppr, approvato un anno più tardi, si è creato quello che il Codice Urbani profetizzava: la difesa dei valori culturali espressi dal paesaggio. Oggi bisognerebbe fare un salto ulteriore: estendere il Ppr a tutta la Sardegna. Il materiale è pronto. All’elaborazione di mappatura e cartografia hanno già lavorato le Università di Cagliari e Sassari, incaricate dalla Regione due legislature fa. Noi questo percorso l’abbiamo riproposto all’attuale maggioranza che ci ha chiamato in audizione nelle commissioni Quarta (Urbanistica) e Quinta (Attività produttive) del Consiglio regionale».
L’obiettivo qual era?
«Partecipare al percorso normativo per salvare la Sardegna dalla speculazione energetica. Invece si è bizantineggiato con diverse norme (prima la moratoria, poi la legge sulle aree idonee, entrambe impugnate dal Governo davanti alla Corte Costituzionale). La proposta del Comitato scientifico per l’insularità, con l’estensione del Ppr a tutta l’Isola, metterebbe l’intero territorio sotto l’ombrello costituzionale. Se non si farà così, la Sardegna continuerà a essere massacrata da pale eoliche e pannelli fotovoltaici, sistemati senza nemmeno avere nulla in cambio. Né soldi né energia, ma solo distruzione dell’unica vera economia che abbiamo, quella agropastorale».
Sul tema delle rinnovabili, è siderale lo scollamento tra Consiglio regionale e società reale, diciamo così.
«I sardi hanno un rapporto genetico con il proprio territorio, ma questo non sembra percepito dalla politica. I nostri pastori e agricoltori sono da sempre custodi di un patrimonio che, una volta perso, non si ricostruisce. In Sardegna sta avvenendo un genocidio, parola che mette insieme la terra e le persone. Del resto, non c’è luogo senza uomini e non ci sono cittadini senza uno spazio dove vivere. Credo che le rappresentanze, sia in Consiglio che in Parlamento, debbano proteggere il paesaggio senza indugi. Sinora in Regione non si è fatta una buona sintesi, in campo c’è anche la Pratobello».
Avete già avuto riscontro sui vostri esposti nelle Procure dell’Isola?
«Abbiamo invocato l’intervento delle Procure per evitare che la presenza di soldi o di riciclaggio diventi un pettegolezzo. Dobbiamo scongiurare le infiltrazioni mafiose, variamente titolate e rappresentate. Il 41 bis colonizza in senso negativo il territorio. La Sardegna è la regione a statuto speciale che ha meno norme di attuazione: le chiede il Consiglio regionale e le approva il Parlamento. Sinora il vento autonomista ha prodotto una retorica quasi fastidiosa. L’insularità non vuol dire chiedere mance allo Stato, ma avere il quadro realistico di quello che sta accadendo. Cioè, costruire una prospettiva futura che fermi la fuga dei nostri giovani, la desertificazione dei territori, la reificazione del nostro patrimonio culturale, delle nostre tradizioni. Dall’insularità dobbiamo prendere la consapevolezza del luogo in cui siamo e delle opportunità che ci spettano, per poi essere conseguenti nel nostro agire. L’insularità è la sintesi più complessa del nostro destino».