In autunno, salva ogni eventuale mutazione di programma indotta dalle circostanze pandemiche, torneranno alle urne circa 1.300 comuni, ma soprattutto quattro grandi città italiane potenzialmente espressive delle oscillazioni politiche e delle preferenze dell’elettorato sul piano nazionale: Roma, Milano, Napoli e Torino. Gli unici candidati certi, quanto meno per il momento, e fatte salve, anche in questo caso, variazioni improvvise frutto di accordi di coalizione di diverso “segno”, parrebbero essere Beppe Sala a Milano per il centrosinistra e Virginia Raggi a Roma per il Movimento 5 Stelle.

Il momento non è dei migliori, lo si percepisce, lo si sente nell’aria, e le difficoltà nel rinvenire un assetto stabile tanto nel centrodestra, quanto nel centrosinistra, se ancora esistono ed hanno un senso compiuto, costituiscono il riflesso dell’evanescenza esistenzialistica dei loro maggiori “partiti” di riferimento (se ancora oggi ha parimenti un senso attribuire loro siffatta nomenclatura) i quali, nel loro eterogeneo proporsi in dimensione di “ens deminutum” per eccellenza, perseverano insipientemente nel voler manifestare la loro disponibilità ad assumere qualsivoglia posizione ideologica nella illusione di poter celare quanto oramai appare chiaro alla generalità dei consociati: allo stato attuale i “partiti”, come comunemente intesi, non esistono più, come pure sembra non esistere più uno “spazio” “classificatorio”, ma sarebbe meglio dire “identitario”, ad essi dedicato all’interno del corpo sociale. La tecnocrazia (oggi interpretata dal banchiere per eccellenza, Mario Draghi) ha preso il sopravvento e la “politica”, o quel che di essa sembra residuare (uno sbiadito Matteo Salvini privo di contenuti e di idee, una temporaneamente rampante Giorgia Meloni da evanescente “effetto wow” cosiddetto di “reazione”, un annacquato Enrico Letta alla ricerca di rinnovata affermazione individuale), si è ridotta alla stregua di una pura e semplice facoltà amministrativa peraltro male interpretata per la cronica mancanza di “competenze” espressa a tutti i livelli.

La deriva leaderistica (comunque azzoppata dall’introduzione del Governo dei “Migliori” siccome espressione dei soliti “matusalemme” della politica nazionale), affermatasi da qualche tempo a questa parte è inversamente proporzionale alla crisi del “sistema” associativo, all’incapacità delle singole individualità di riconoscersi come facenti parte di un “unicum” e di riconoscersene quale espressione derivata e non viceversa. Detto altrimenti, ma non in senso omnicomprensivo: se nel 2018, l’inseguire gli umori popolari, limitandosi a rifletterne il malessere, aveva fatto schizzare l’indice del consenso a favore dell’ex capitano padano Matteo Salvini, tradottosi nei fatti (quel consenso si intenda) in una picconata letale alla stabilità dell’intera coalizione, ad oggi, quel consenso così fulgido appare gravemente menomato non solo dall’inconsistenza ideologica di un Segretario di Partito che nel corso del tempo sembra aver tradito la natura identitaria e campanilistica del proprio gruppo di riferimento per assumere una connotazione nazionale del tutto innaturale, ma anche, e di conseguenza, dall’adesione ingiustificata ad una struttura di Governo, quello Draghi per intenderci, che presuppone la negazione stessa, sul piano ideologico, della sua (di Matteo Salvini si intenda) azione politica di “rispecchiamento” delle istanze “senza voce” del corpo sociale, e rende conferma dell’evanescenza esistenzialistica di un corpo associativo in via di graduale, sia pure ben celata per il momento, disgregazione.

Matteo Salvini (Ansa)

Ebbene, dando per ammesso e riconosciuto siffatto stato di cose, da esso occorre prendere le mosse nell’ottica della conduzione di un ragionamento che abbia come obiettivo precipuo quello di interpretare le vicissitudini correnti in senso conforme. Intanto, perché solo inserendoli in un contesto siffatto, e considerata la crisi generale del sistema “giustizia”, si possono comprendere, a mio modesto avviso, il rifiuto di Gabriele Albertini ad assumere la responsabilità della candidatura, quale espressione del centrodestra, a Sindaco di Milano, come pure la reticente titubanza di Guido Bertolaso a correre per il Campidoglio a Roma. Quindi, perché la “politica”, diversamente da quanto i diversi esponenti di partito hanno finora mostrato di ritenere, dovrebbe, come di fatto deve, farsi vivida interprete, e non solo sterile cassa di risonanza, delle istanze popolari al fine di fungere da indice di orientamento dell’azione di governo. Infine, perché il cosiddetto pluripartitismo moderato, esitato, nel 2008, nella formazione del Partito Democratico e nella fusione di AN e FI nel PdL, sebbene abbia allora contribuito ad elidere la frammentazione partitica riconducendo ad unità (coalizioni) le molteplici formazioni associazionistiche esistenti sul campo, offrendo così una parvenza di proposta politica ispirata al bipolarismo di sopravvivenza, ha finito con lo sbandare nel corso del tempo per essersi infranto nell’illusorio gioco contrappositivo tra l’idea di “destra” e l’idea di “sinistra” (evidentemente inesistenti nella loro connotazione storica), tra “establishment” ed “anti-establishment”, tra il “vecchio” ed il “nuovo” che avanza, e per aver sottovalutato, incautamente, il processo di “democratizzazione” della vita interna ai partiti, rimasti, di conseguenza, privi di anima e di linfa vitale ed, incapaci, per ciò stesso, di riflettere la loro attività, il senso stesso della loro esistenza, nella sperimentazione costante di una ricerca identitaria ispirata all’empirismo, al realismo ed all’inclusività. Sono scomparsi i cosiddetti blocchi sociali espressione delle qualificazioni passate, come pure gli hashtag del passato recente, espressione del binomio tra “conservazione” e “innovazione”, hanno perso di significato siccome inseriti in un sistema relativistico di circostanza che inizia, in forma embrionale, a riconosce nuovi protagonismi individualistici, sebbene non ancora compiutamente definiti per non riuscire ad essere contestualizzati in formazioni di definita struttura. Se, dunque, Matteo Salvini, Enrico Letta e Matteo Renzi sono la personalizzazione del “vecchio” che arretra nell’incapacità di rinvenire nuove formule espressive, Giorgia Meloni e Giuseppe Conte sembrano rappresentare il “nuovo” che si insinua tra le maglie strettissime della tecnocrazia imperante, e che giungerà a completa affermazione una volta esaurito il mandato di Sergio Matterella.

Il Tempo come sempre sarà Signore e la farà da Padrone. Assisteremo, nostro malgrado, ad una concettualizzazione innovativa dei tradizionali significati di “destra” e di “sinistra” che finiranno per rinvenire il loro punto di contatto nell’adesione incondizionata alle politiche neo-liberiliste quale elemento ideologico di fusione identitaria tra proposte politiche solo apparentemente contrapposte.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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