Pace vera, non una resa: l’analisi del 28 novembre 2025
DI Luca Lecis, Università di CagliariLa prima diffusione della bozza dell’accordo di pace promossa dall’amministrazione Trump per fermare la guerra in Ucraina è stata legittimamente letta dal mondo politico-diplomatico occidentale come una capitolazione di Kiev. Un piano peraltro duramente criticato anche da diversi senatori repubblicani, perché giudicato contrario agli interessi degli Stati Uniti, che ha colto letteralmente di sorpresa i maggiori leader europei riuniti in Sudafrica al G20, soprattutto i tre “volenterosi”, Merz, Starmer, Macron, che hanno subito avviato consultazioni urgenti con il presidente Zelensky.
Da subito la posizione europea è stata chiara: il documento, frutto di preliminari incontri diplomatici tra Trump e Putin, può essere un punto di partenza, ma è necessario modificarlo in modo sostanziale, nonostante l’aperta contrarietà del Cremlino; e a ragione visto che il piano inizialmente favoriva nettamente la Federazione russa. Sempre più occidentali, europei e statunitensi in primis, cercano invano di comprendere il sorprendente atteggiamento di Washington nell’assecondare apertamente i desiderata del Cremlino nei negoziati rispetto all’alleato ucraino, al quale deve esser riconosciuto un incredibile sangue freddo nel gestire i giri di valzer dell’amministrazione trumpiana.
Il nuovo piano elaborato a Ginevra, che presto sarà discusso nelle prossime trattative, ha permesso alle delegazioni di Stati Uniti e Ucraina di rimuovere e ridefinire alcuni dei punti più controversi (il limite alla dimensione dell’esercito ucraino e l’ipotesi di concessioni territoriali immediate). Tuttavia, non cancella un dato di fatto: la debolezza negoziale di Kiev, anche a causa, è bene ribadirlo, delle gravi responsabilità europee.
Gli analisti indipendenti hanno spesso evidenziato tre limiti, in particolare della coalizione dei volenterosi: il rifiuto di schierare una forza militare europea di interposizione in assenza di un immediato cessate il fuoco, facendo così indirettamente il gioco di Putin intenzionato a ritardarlo il più possibile; la mancata confisca dei quasi duecento miliardi di euro di beni russi congelati in Europa dall’inizio della guerra d’aggressione putiniana, che da soli garantirebbero la sostenibilità militare dell’esercito ucraino per diversi anni, mettendo davvero in crisi la Federazione russa, alle prese con elevate perdite e sempre più seri problemi economici; infine, la riluttanza a mettere subito a disposizione di Kiev gli armamenti necessari senza opporre restrizioni e programmare futuri trasferimenti dei sistemi di difesa.
Finché l’Europa non comprenderà quanto sia importante mostrarsi ferma e decisa davanti a Trump, che pare apprezzare molto di più gli interlocutori duri e spietati piuttosto che quelli cauti e diplomatici, l’Ue avrà un peso nullo nei negoziati. Di questo ne sono consapevoli a Mosca, che punta a sfruttare al massimo l’imprevedibilità e la manovrabilità di un presidente statunitense ritenuto più attento agli affari che alla diplomazia.
Non è un caso, infatti, che il Cremlino abbia avvertito, tramite il sempre più enigmatico ministro degli esteri Lavrov, di esser pronto a respingere nuovi piani qualora non dovessero soddisfare le richieste già presentate da Putin a Trump nel corso dell’incontro agostano in Alaska, definite intese chiave in grado di modificare radicalmente la situazione.
Nonostante il quadro diplomatico sia in continua evoluzione, è necessario che l’Europa opti subito per un radicale cambio di strategia: per evitare il collasso dell’Ucraina serve dimostrare a Washington che alla retorica segue sempre un’azione concreta, solo così è possibile contribuire a una pace fondata sulla parità e non su una resa imposta.
Luca Lecis – Università di Cagliari
