Ha vent’anni quando da Larache, nel Marocco, Laila El Harim, occhi scuri, lunghi capelli ricci sulle spalle, si trasferisce in Italia. Trova subito lavoro, come operaia, nel Modenese. Impara sul campo: è brava, affidabile, precisa, orgogliosa di quello che sa fare. Dopo qualche tempo ottiene cittadinanza e passaporto italiani, e dopo nove anni incontra Emanuele, un anno più giovane di lei, ex azzurro della nazionale di nuoto pinnato, operaio specializzato nel settore della stampa offset.

Lavorano nella stessa fabbrica, tra loro è un autentico colpo di fulmine. Si innamorano e non possono stare lontano uno dall’altra, così dopo due giorni vanno a vivere insieme. Trascorre qualche anno e comprano una casa a Bastiglia, quasi contemporaneamente nasce la loro bimba: Laila, che si sente italiana, vorrebbe comunque un nome arabo che le ricordi il suo Paese d’origine, il compagno suggerisce un nome semplice e trovano la sintesi dei loro desideri con Ranja, come la regina di Giordania.

Laila è una donna allegra, felice, realizzata che ride anche di se stessa: la mattina appena sveglia guarda allo specchio i suoi capelli folti e indomiti e spesso commenta “sembro una strega”. E ride. Tiene la casa in modo perfetto: l’hanno acquistata insieme, Laila e Emanuele, con un mutuo, ma i mobili li ha scelti lei e sopra ha sistemato i suoi oggetti. Il televisore è grandissimo, il divano è per otto.

Laila fa il pane in casa e anche la pizza e le focacce: ha imparato da piccola, a Larache, e non ha mai smesso.

Nel giugno scorso decide che è stanca del suo lavoro, le piacerebbe un ruolo di responsabilità. Ora o mai più: decide di cambiare e manda il suo curriculum in giro. Nell’ambiente la conoscono e sanno che è una lavoratrice particolarmente attenta e affidabile. La Bombonette, un’azienda che produce scatole per gelati e pasticcini a Camposanto, un centro di tremila abitanti della Bassa Modenese, riceve la sua candidatura e la assume subito, il giorno dopo, a tempo indeterminato, come fustellatrice: Laila è capo macchina di uno strumento che serve per fare le sagome. Controlla che tutto sia a posto e solo dopo subentrano gli operatori. Non solo: deve occuparsi anche dell’avviamento di tutte le apparecchiature e tra i suoi compiti c’è pure quello di istruire un giovane apprendista.

E’ la prima fabbrica della sua vita italiana: Laila è contenta, la pagano più di prima. Scrive pure un diario, dove ogni giorno registra non le sue cose personali ma quello che succede sul posto di lavoro: oggi tutto bene; devo mandare una mail per la fornitura; oggi prove tecniche. Se c’è da lavorare di più non si tira indietro, resta anche undici ore in fabbrica, e quando torna a casa è stanca ma sempre serena.

All’inizio di luglio Emanuele le chiede di sposarla e le mette al dito un anello d’oro con la pietra di acquamarina. Laila comincia subito a oragnizzarsi, vuole che il matrimonio sia celebrato nel Salento, vicino a Gallipoli, la zona originaria della famiglia del compagno. Pensa all’abito bianco, non lo vuole colorato come le suggerisce Emanuele, però deve essere semplice perchè dopo il sì ha intenzione di festeggiare in spiaggia, a piedi nudi. Poi, un giorno, sogna di acquistare una casa al mare, proprio da quelle parti.  

E’ tutto perfetto.

Il 3 agosto come ogni mattina Lalia si sveglia molto presto, la bimba dorme. Alle 5,50 è sul posto di lavoro. L’apprendista non c’è: è il suo turno per il vaccino.

Laila lavora in una zona della fabbrica dove non c’è nessuno: la fustellatrice che, attraverso i rulli ai quali sono agganciate alcune lame, taglia con estrema precisione vari materiali come carta, legno e plastica, è sistemata in un angolo lontano dagli altri macchinari; è dotata di sensori che la fermano in caso di inconveniente ma quella mattina qualcosa non funziona.

Alle 8,40 urla disumane risuonano nella fabbrica: Laila è rimasta incastrata, viene trascinata e schiacciata dalla fustellatrice. Non c’è nessuno vicino a lei.

Il dramma si consuma in pochi secondi.

Venti minuti dopo squilla il telefono di Emanuele che è al lavoro a Bomporto, non lontano da Camposanto: il suo ex datore di lavoro, socio dell’azienda dove lavora Laila, gli dice che la donna ha avuto un brutto infortunio, deve correre. Non dice altro ma Emanuele capisce tutto. Guida per venti minuti lungo quindici chilometri di curve che attraversano le campagne, fino alla fabbrica. Fuori ci sone le macchine dei carabinieri e dei vigili del fuoco, nessuna ambulanza. Brutto segno. Un carabiniere gli va incontro: “Devo dirle che la sua compagna è morta per le conseguenze di un incidente dentro l’impianto, alla fustellatrice”. Emanuele entra, la sua Laila è coperta da un lenzuolo. Sta lì, vicino a lei, per l’ultima volta.

Poi il ritorno a casa e l’abbraccio con la piccola Ranja. Sa quello che deve fare e dire: uno psicologo gli ha suggerito come comportarsi con la figlioletta. Deve essere chiaro, niente bugie. Così la prende in braccio e le dice che la mamma ha preso una botta in testa così forte che è andata subito in cielo. La bambina gli da schiaffetti sulla bocca, sembra volerla chiudere per farlo smettere, per non sentire. Dice “no no” e si mette a piangere. Quando si calma gli chiede una scatola e dentro conserva una molletta per i capelli e una paio di occhiali da sole. Oggetti della mamma. Li vuore tenere tutti lì.

L’atroce morte di Laila ricorda quella di Luana, 23 anni e madre di un bambino di cinque, risucchiata il 3 maggio a Prato in un orditoio. Ma sono tante le morti sul lavoro. Lo stesso giorno di Laila, sempre in provincia di Modena, un uomo è precipitato da un capannone industriale dove era salito per verificare i danni del maltempo; un indraulico è stato folgorato mentre lavorava in una casa: stava usando il trapano quando c’è stata una perdita d’acqua.

In Italia si muore ogni giorno sul lavoro tanto che ormai ci si rifiuta di chiamarle morti bianche, come avveniva finora, e c’è chi parla di crimini di pace. Di certo è un’emergenza sociale. Nel 2020 gli incidenti non solo mortali sono stati quasi seicentomila, nei primi sei mesi di quest’anno più di 266 mila, 158 i morti, 54 solo in giugno.

Tante tragedie, una certezza: non c’entrano sfortuna, caso, destino o fatalità, è solo una questione di sicurezza. Che, evidentemente, non c’è.

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