Q ualche giorno fa a Olbia, presentando il documentario “Padre Nicosia, l’angelo dei lebbrosi” ambientato a Hong Kong e Macao, la sessione conclusiva di domande è scivolata inevitabilmente verso l’universo Cina. Una grande curiosità (pochi italiani hanno vissuto e lavorato in Asia) ha alimentato il dibattito che ha toccato diverse informazioni di base come pure i temi della religione, della democrazia e della geopolitica. L'altra parte del mondo, chiamiamola così, soffre in Italia di amore oppure più frequentemente di diffidenza e odio.

E ciò coerentemente con questo vento di cultura bipolare (o con me o contro di me) che invece di studiare, comprendere e includere tende a dividere l'estraneo, l'altrove. In particolare la Cina si trova sotto i riflettori in quanto giudicata minacciante. L'ultima operazione militare che si ricordi, contro il Vietnam, risale al 1979, ma gli Usa giudicano la Cina aggressiva, pericolosa, e questo si riverbera su qualsiasi cronaca o giudizio espresso sui diversi temi riguardanti il gigante asiatico.

Sul problema della pandemia, ad esempio, l’Huffington Post titola “Un lockdown da fame. A Shanghai anche i cinesi si incazzano” e spiega che “La strategia zero Covid trasforma una città di 26 milioni di abitanti in un immenso carcere. Reclusi in casa, scarseggiano i beni di prima necessità, ma droni e cani robotici invitano a tenere sotto controllo il desiderio di libertà. Ma la rabbia sui social e dalle finestre supera il filtro del regime: vogliamo mangiare, è chiedere troppo?' L’articolo non lesina poi giudizi tranchant sulla mancanza di trasparenza di Pechino e disegna una situazione anti-democratica che, dimenticando i lockdown subiti dal popolo italiano a colpi di Dpcm. Il Sole 24Ore titola invece “Il lockdown di Shanghai accende l’inflazione” quando quest’ultima ha raggiunto in Cina il +1,5% (in Usa +8,5%). La Repubblica riporta: “Covid, la Cina in allarme per i ventimila casi in un giorno” quando l’Italia, il 12 aprile, poteva vantare 84mila nuovi casi e una media nell'ultima settimana di 62mila casi al giorno.

Tuttavia, quando discuto pubblicamente o privatamente della Cina ripeto sempre che ci vorrebbero due vite per conoscerla e che è molto difficile per noi comprenderne la dimensione (1,5 miliardi di persone), messa a confronto della nostra popolazione, 60 milioni circa, che già rappresenta un ostacolo insormontabile per la capacità di analisi, di visione, di programmazione e di realizzazione della nostra classe dirigenziale. In Cina, qualsiasi decisione (politica, sociale, economica, ecc.) rischia di spostare irrimediabilmente delicatissimi equilibri, e l’esercizio della politica deve tener conto di questo abnorme sistema, così come delle aderenze del Confucianesimo, della paura del “luàn”, il caos, e di mille altre variabili che insistono su un coacervo tanto complesso e interconnesso.

Noi critichiamo gli altri, è lo sport nel quale eccelliamo, dimenticando – se si parla di Covid – che abbiamo il triste record di 121mila morti nei primi dieci mesi di contagio, che non abbiamo imparato e modificato nulla in termini di medicina di base, che abbiamo bombardato la popolazione con decine di virologi, ognuno con una propria opinione peraltro variabile nel tempo, che siamo usciti dalla fase critica grazie a una dipendenza strategica, quella dei vaccini provenienti dagli Usa (come invece dipendiamo dalla Russia per il gas). Mettere in lockdown città come Shenzhen e Shanghai è una decisione e un’operazione ardua che fa esplodere problemi per noi inimmaginabili (pensiamo solo alla logistica). Può essere sovradimensionata rispetto al numero dei contagi, certamente, ma appare comunque un segno di non sottovalutazione della pandemia. Non dovremmo sorprenderci ma sforzarci di capirlo.

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