«C redo che la pace si faccia sempre aprendo canali, mai si può fare una pace con la chiusura. Invito tutti ad aprire rapporti, canali di amicizia». Così il 30 aprile scorso, nel corso della conferenza stampa durante il volo di ritorno dal viaggio apostolico in Ungheria, papa Francesco si è espresso sulla possibilità di una pace in Ucraina. Parole importanti perché hanno esplicitato la volontà vaticana di avviare un’azione diplomatica concreta per risolvere un conflitto che, ad oggi, martoria il Paese ucraino e ha portato l’Occidente a isolare economicamente e politicamente la Federazione russa.

I l cammino per la pace è sicuramente arduo, data l’ovvia intransigenza delle parti in causa, ma non per questo è stato mai interrotto; così come mai la Santa Sede ha distolto lo sguardo dal suo obbiettivo, anche in quelle occasioni rivelatesi come le meno proficue. È stato il caso dell’udienza in Vaticano del presidente Zelensky nel maggio scorso, quando al termine dell’infruttuoso incontro con il presidente ucraino Bergoglio commentò che «con le armi non si otterrà mai la sicurezza e la stabilità, ma al contrario si continuerà a distruggere anche ogni speranza di pace». Il tentativo vaticano di aprire una strada, consolidato dalla missione del cardinale Zuppi a Mosca in Russia come inviato del papa, è tanto più apprezzabile se si considera che le mediazioni vaticane fra Stati belligeranti o comunque tra soggetti di una controversia costituiscono pratiche inusuali, azioni assai rare da rintracciare nell’azione diplomatica della Santa Sede. Inconsuete, ma non inedite, dato che nel Novecento vi sono stati precedenti importanti: al noto intervento di Giovanni XXIII per scongiurare uno scontro nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica a seguito della crisi di Cuba (1962), si deve infatti annoverare anche la mediazione vaticana nella disputa tra l’Argentina e il Cile sul possesso del canale di Beagle, all’estremità meridionale del continente sudamericano. Si trattò di un intervento “politico” voluto da Giovanni Paolo II per scongiurare una reale minaccia, un conflitto tra paesi allora alimentati da tossici nazionalismi e governati da spietati dittatori, i generali Augusto Pinochet in Cile e Jorge Videla in Argentina. La “missione di pace e di amicizia a Santiago e Buenos Aires” venne avviata nel gennaio 1979 con gli accordi di Montevideo, negoziati difficili, portati avanti dal plenipotenziario vaticano Antonio Samoré, diplomatico di lunghissimo corso. Il dialogo argentino-cileno si concluse cinque anni più tardi con la firma di uno storico trattato di pace, siglato in Vaticano dai ministri degli esteri argentino e cileno il 29 novembre 1984 alla presenza del Segretario di Stato del lungo pontificato wojtyliano, il cardinal Agostino Casaroli.

Inizialmente considerata come un azzardo diplomatico con scarse possibilità di successo, la mediazione della Santa Sede diede positivi risultati dimostrando l’instancabile lavoro a favore della pace promosso da Karol Wojtyla, la prima e concreta affermazione di quella “ingerenza umanitaria” che Giovanni Paolo II avrebbe apertamente rivendicato nelle successive situazioni di conflitto. In linea con la politica vaticana di apertura al mondo sovietico, la cosiddetta Ostpolitik promossa da Paolo VI per il riavvicinamento tra la Santa Sede e l’Unione Sovietica, il pontefice polacco fece sue le parole pronunciate nell’agosto del 1939 dall’allora papa Pacelli: «nulla si perde con la pace, tutto può andare perduto con la guerra». Se le parole di Pio XII non evitarono lo scoppio della guerra, tuttavia dimostrano quanto sia importante, ancora oggi, ribadire coraggiosamente l’esistenza di conc rete alternative all’uso della forza. Solamente quando avvierà un paziente dialogo, supportato da una sincera volontà di pace, la Comunità europea potrà finalmente fermare il conflitto in Ucraina e così riconquistare la sua dignità.

Università di Cagliari

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