Autonomia e fiscalità
M olti dicono che il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata s’ispirerebbe al modello delle Regioni a statuto speciale in quanto prevalentemente basato sul presupposto che le imposte prodotte sul territorio non devono andare a Roma. Presentando il progetto, il ministro per gli Affari regionali ha sostenuto che la riforma garantirebbe risorse per tutte le regioni e non ci sarebbe alcuna disparità di trattamento, anzi, ne deriverebbe un vantaggio per quelle più povere. Facendo un po’ di calcoli è facile smontare questa affrettata conclusione.
I l gettito fiscale di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna è pari al 40% del totale nazionale. Trattenere al Nord questa immensa valanga di soldi significherebbe ridurre alla fame il resto del Paese. Significherebbe, cioè, fare a pezzi la Carta Costituzionale che, invece, all’art. 3, impegna la “Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
L’uguaglianza fra i cittadini di uno stesso Stato si garantisce con risorse adeguate e non introducendo pericolose differenziazioni. D’altronde l’unità del Paese non è un’aspirazione ma un principio fondamentale della Costituzione, che all’art. 5 recita: “La Repubblica è una e indivisibile”. Pertanto, nulla a che vedere con le Regioni a statuto speciale. Il riconoscimento della specialità a Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta non derivò da meri calcoli economici ma da ragioni politiche e dalla constatazione di un forte divario fra i territori. Per costruire un percorso di unità, il legislatore costituente volle conferire e confermare lo status di specialità a quelle regioni che avevano e avrebbero pagato un prezzo superiore, anche in termini economici, rispetto al resto del Paese.
Oggi la partita è tutta basata su un presupposto che sembrerebbe far emergere l’ingordigia delle zone ricche a discapito di quelle più povere, senza tenere in considerazione che non è solo il gettito fiscale la leva di sviluppo di un Paese. Dall’altra parte bisognerebbe fare i conti (ancora nessuno li ha fatti) sui costi effettivi sostenuti dallo Stato nelle aree a più alto sviluppo economico per la realizzazione delle infrastrutture strategiche (aeroporti, alta velocità, autostrade, ospedali).
Ma c’è un altro argomento. I fautori dell’autonomia differenziata sostengono che ci sarà sicuramente un miglioramento, in termini di efficienza, dei servizi offerti ai cittadini. La Lombardia ha chiesto che le vengano trasferite ben 20 materie attualmente in capo allo Stato centrale. La maggiore efficienza deriverebbe dall’idea che se si fa da soli, senza la burocrazia statale, tutto filerebbe al meglio.
Alcuni politici, attingendo da una non meglio definita tradizione austro-ungarica, rimangono intimamente convinti che più si va al Nord e meglio è. Una tesi che, purtroppo, molto spesso si scontra con una realtà ben diversa. La pandemia da Covid-19 ha dimostrato quanto la sanità delle regioni ricche del Nord faccia acqua da tutte le parti. È bene di questo fare memoria.
C’è poi un tema di equità sociale. Una delle materie più delicate dell’autonomia differenziata è l’istruzione, che pesa per 45 miliardi sul bilancio dello Stato. Questa è forse l’infrastruttura più importante per dare consistenza all’idea di popolo e di unità come recita la Costituzione. Differenziare ulteriormente la scuola significa far esplodere il divario esistente. Svimez certifica che nei primi dieci anni di vita un bambino del Nord ha avuto modo di frequentare un a scuola per circa 1300 ore, uno del Sud ne ha in media 200 in meno.
Allora, bisogna difendere lo status quo? Esiste, a ben vedere, un’altra via, quella di ridisegnare la mappa dei servizi alle persone in un’ottica di autentica solidarietà, introducendo migliore trasparenza nella gestione dei fondi pubblici e inchiodando al principio di responsabilità i suoi gestori, che siano politici o funzionari. Ma anche stabilendo adeguate sanzioni per chi non spende e non spende in modo efficace le risorse pubbliche. È un percorso che riguarda il progresso del Paese per il quale sarebbe auspicabile un’autentica fase costituente da affidare alla politica e non a roboanti comitati scientifici che, spesso, servono a coprire la mediocrità di un progetto.