Obbligo vaccinale e di possesso del green pass? Erano legittimi. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, ossia l’organismo che decide se una norma rispetta o no i principi fondamentali che sorreggono la Repubblica italiana. La sentenza porta la data del 23 dicembre appena trascorso. 

La vicenda trae origine da un ricorso incidentale del Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, davanti al quale si erano presentate due dipendenti a tempo indeterminato della Regione siciliana, in servizio nell’Ufficio provinciale della Motorizzazione civile: in attuazione di un Dpcm (uno degli atti che governavano la quotidianità degli italiani durante la pandemia) era «stato impedito l’accesso alla sede di lavoro perché prive di una delle richieste certificazioni verdi Covid-19 attestanti la vaccinazione, la guarigione o l’effettuazione di un test antigenico rapido o molecolare (cosiddetto green pass base)». Insomma: non erano vaccinate e non volevano fare i tamponi. Avevano ingaggiato una battaglia giudiziaria. Che è arrivata alla fine. 

Le contestazioni 

Secondo le contestazioni era messa in dubbio la «legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale in sé considerato (...) laddove pone «i lavoratori di fronte all’alternativa ineludibile di vaccinarsi (qualora non guariti o esentati o, […] qualora non intendessero sottoporsi al tampone ogni due giorni) o di essere temporaneamente estromessi dal posto di lavoro». Entrambi gli “obblighi” «(quello esplicito e quello surrettizio) si sostanzierebbero in un trattamento sanitario obbligatorio non rispettoso dell’articolo  32, primo comma, della Costituzione». Ancora «l’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni violerebbe il principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione, determinando una ingiustificata disparità di trattamento tra gli ultracinquantenni e gli infracinquantenni». In dubbio era stata messa anche la legittimità dell’imposizione del tampone: «Dal suo canto, la necessità di “sottoporsi ogni due giorni al tampone” per ottenere il green pass base in assenza di vaccinazione o avvenuta guarigione sarebbe lesiva della dignità della persona, in quanto provocherebbe fastidi e sofferenze a livello fisico, sottrarrebbe tempo alle ordinarie occupazioni personali e comporterebbe “a lungo andare” un notevole esborso economico».

La sentenza

I giudici della Corte costituzionale la pensano diversamente. Secondo la sentenza «le ragioni che hanno indotto a introdurre l’obbligo del vaccino anti SARS-CoV-2 per gli ultracinquantenni risultano chiaramente anche dai lavori preparatori della legge di conversione del decreto, nei quali si sottolinea come la necessità di assicurare la massima copertura vaccinale a tale fascia di popolazione si basi «su evidenze scientifiche nazionali e internazionali accumulate sia nel corso della pandemia che nell’ultimo mese», periodo di crescente circolazione della variante Omicron del virus Sars-CoV-2». Viene anche sottolineato che la maggiore incidenza di contagi si registrava proprio fra gli over 50.

«L’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni introdotto dalla disposizione», si legge in sentenza, «teneva, dunque, in considerazione i dati scientifici e statistici in quel momento disponibili». L’obiettivo di proteggere i soggetti più fragili, «coerente con le evidenze scientifiche e statistiche disponibili al tempo, rivela chiaramente una legittima finalità di tutela della salute pubblica». La non irragionevolezza delle disposizioni oggetto di ricorso «deve essere scrutinata in base alle conoscenze medico-scientifiche disponibili al momento della loro adozione, nonché “in considerazione della peculiarità delle condizioni epidemiologiche” sussistenti a quel momento». 

La Corte stronca anche la contestazione sul trattamento sanitario obbligatorio considerato dalle ricorrenti, appunto, incostituzionale: «Le evidenze scientifiche disponibili al momento di entrata in vigore dell’obbligo vaccinale confermano l’efficacia della vaccinazione anti COVID-19 come misura di prevenzione fondamentale per contenere la diffusione dell’infezione», spiega la sentenza. Che smonta, poi, i presunti pericoli per la salute che deriverebbero dalla vaccinazione: «Questa Corte ha già preso in attenta considerazione le conclusioni dell’Aifa e dell’Iss sulla sicurezza dei vaccini anti Covid-19. A tale proposito ha, in particolare, rimarcato che, “secondo le conclusioni esposte, la maggior parte delle reazioni avverse ai vaccini sono non gravi e con esito in risoluzione completa. Le reazioni avverse gravi hanno una frequenza da rara a molto rara e non configurano un rischio tale da superare i benefici della vaccinazione”; e ha soggiunto che “non è stato inoltre osservato alcun eccesso di decessi a seguito di vaccinazione e il numero di casi in cui la vaccinazione può aver contribuito all’esito fatale dell’evento avverso è estremamente esiguo e comunque non tale da inficiare il beneficio di tali medicinali”». 

E il tampone, che sarebbe stato così invasivo? «È evidente che il tempo richiesto per la sottoposizione» al test, scrivono ancora i giudici costituzionali, «non è idoneo a impedire lo svolgimento delle ordinarie occupazioni personali, così come l’operazione in sé, per un verso, non implica alcun apprezzamento negativo della persona che vi è sottoposta e, per l’altro, anche in considerazione della sua breve durata, non appare in grado di provocare sofferenze fisiche significative». 

Fatte le premesse, la Corte entra nel merito dell’allontanamento dal posto di lavoro e della conseguente perdita proporzionale dello stipendio: «Le conseguenze derivanti dal mancato adempimento» dell’obbligo vaccinale e del tampone «non ledono  alcuno degli evocati parametri costituzionali: né il diritto al lavoro e alla retribuzione (artt. 4 e 36 Cost), né il diritto alla dignità personale nell’accezione fatta propria dall’ordinanza (art. 2 Cost.), né il principio di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.). In primo luogo, perché sono comunque frutto di una scelta individuale. In secondo luogo, perché l’inosservanza di tali obblighi assume una rilevanza “meramente sinallagmatica” sul piano delle condizioni nascenti dal contratto di lavoro: il loro inadempimento rende la prestazione non conforme alle regole del rapporto, giustificando così la preclusione a svolgere l’attività lavorativa e la conseguente privazione della retribuzione e di ogni altro compenso o emolumento».

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