Manu Invisible, noto street artist sardo, è stato ospite questa sera a Iglesias su iniziativa dell’Università della Terza Età (Ute), dove ha tenuto una lezione speciale nella quale ha raccontato la sua esperienza in Ucraina attraverso un video realizzato insieme al videomaker Enrico Monni.

L’artista è stato introdotto dal consigliere comunale Ubaldo Scanu, che lo ha definito «un artista che mette in primo piano le sue opere, piuttosto che sé stesso». Scanu ha ricordato il primo incontro con Manu Invisible, avvenuto nel 2018, quando l’artista realizzò il murale Radici, che ancora oggi campeggia sulla facciata esterna della sala Lepori, affacciata su via Isonzo.

Manu Invisible ha raccontato i suoi esordi, da quando studiava al Liceo Artistico di Cagliari, proseguendo poi la sua formazione tra l’accademia e le botteghe di Firenze, dove si è specializzato negli affreschi. Da molti anni si presenta con una maschera e, tanto quanto le sue opere – ricche di simbolismi e messaggi profondi – mantiene un alone di mistero che suscita sempre tanta curiosità in chi lo incontra.

Nel 2024 l’artista si è recato a Bucha, città ucraina non lontana da Kiev, colpita da numerosi bombardamenti russi. Su un muro di un edificio abbandonato ha dipinto una colomba bianca, intrappolata da una bandiera sfilacciata dell’Ucraina, che le tarpa le ali.

«A Bucha ho visto tante macerie e numerose fosse comuni – ha raccontato l’artista –. Ho potuto osservare con i miei occhi ciò che la televisione filtra e ci porta dentro casa: la violenza e i resti di ciò che è stato distrutto. Più del 90% della cittadina è stato ricostruito, ma ciò che non si è riusciti a ricostruire è tutto quello che la guerra ha portato via: gli innocenti, le famiglie e tutto l’amore e il legame che li univa».

L’artista ha poi raccontato come ha lavorato in un contesto così complesso: «In questi ambienti è molto difficile attribuire un significato alle opere che si realizzano. Dove c’è sofferenza, il gesto artistico viene percepito come un tentativo di coprire una mancanza, ma in realtà è un modo per prendere per mano quella sofferenza».

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