Si è offerto volontario per coprire il turno di un collega risultato positivo al Covid ma, dopo essere rimasto in servizio per diciotto ore, non si è trovato nessuno che potesse subentrargli. Nuovo inquietante segnale di allarme sullo stato di salute del servizio sanitario da Muravera. Ancora una volta tocca a un medico, ancora una volta viene chiesto l’intervento dei carabinieri. Se una decina di giorni fa aveva fatto il giro d’Italia la notizia di una dottoressa dell’ospedale, stavolta tocca a un medico del 118, uno dei tre in servizio effettivo su una pianta organica che ne prevede sei (e tanti ce n’erano quando il sistema, una ventina d’anni fa, fu avviato).

Di quei tre, nei giorni scorsi, uno è risultato positivo al Covid: per garantire il servizio, i colleghi si sono sobbarcati il carico di lavoro dell’assente forzato. Uno dei due ha finito ieri mattina alle 8 il suo turno di 18 ore di fila ma nonostante l’emergenza fosse stata comunicata per tempo non si è trovato nessun medico che gli desse il cambio almeno fino alle 20 di ieri sera, quando sarebbe cominciato il suo turno successivo di lavoro. Che fare? Ordine di servizio: il medico doveva tornare a casa. Cosa che ha fatto, ma solo dopo aver avvisato i superiori, il sindaco e i carabinieri che a garantire il servizio del 118, fino alle 20, sarebbero rimasti soltanto infermieri.

Scuote la testa Lidia Todde, 65 anni di cui gli ultimi 25, prima fondando un comitato spontaneo poi costituendo (nell’anno 2000) l’associazione “Obiettivo sanità Sardegna”, a combattere per il potenziamento dei servizi sanitari del Sarrabus. E principalmente dell’ospedale San Marcellino di Muravera, bersaglio di una sequenza di scelte politiche che, giura questa combattiva pensionata, hanno trasformato l’ospedaletto in una bella scatola, nuova e funzionale, ma inesorabilmente vuota.

«Un tempo il San Marcellino funzionava. C’era l’otorinolaringoiatria, l’ortopedia, la chirurgia, l’ostetricia-ginecologia». Molti di quei reparti sono ancora indicati sul totem con le indicazioni posizionate in cortile, ma all’interno, dietro le porte si spalancano reparti nuovi di zecca (la ristrutturazione è di 12 anni fa, ai tempi della Giunta Cappellacci, ma gli stanziamenti erano della Giunta Soru, assessore alla Sanità Nerina Dirindin) ma desolatamente vuoti. Semivuota perfino la Medicina: sabato scorso i pazienti ricoverati erano nove.

«Ho sottomano tutta la cronologia», assicura Todde. Ed elenca: 2003, taglio del reparto di otorino-laringoiatria; 2006, annuncio che non «c’erano più i numeri» per tenere in piedi l’ostetricia-ginecologia e che sarebbe nato un “punto donna”; 2015, annuncio della Riforma della rete ospedaliera (Giunta Pigliaru, assessore Luigi Arru); marzo 2021, declassamento del pronto soccorso a punto di primo intervento: via gli anestesisti, e non avendo più in ospedale una chirurgia H 24 si soccorrono solo pazienti con codici bianchi e verdi, cioè patologie di lieve entità, mentre i codici gialli e rossi vengono dirottati verso Cagliari.

La cronaca, un paio di settimane fa, aveva lanciato un nuovo allarme: l’ipotesi (concreta) che l’operatività di quel che resta del pronto soccorso fosse limitata a 12 ore al giorno. Ci ha pensato il nuovo direttore generale dell’Asl 8, Marcello Tidore, a tranquillizzare tutti: «Non succederà».

Ma il quadro generale racconta un declino che pare inesorabile. Annuisce, nel suo studio di sindaco, Salvatore Piu, che di professione è ortopedico e anni ne ha 71, 23 dei quali trascorsi a lavorare proprio nell’ospedale del paese, dove «per volontà dell’allora presidente della Regione Mario Melis» fu lui ad aprire il reparto di Ortopedia, poi soppresso.

Fu sempre lui, successivamente, ad avviare il pronto soccorso dell’ospedale marino a Cagliari, soppresso pure quello: «La mia carriera sanitaria potrebbe dirsi un fallimento», ci scherza su con autoironia. Piu, sindaco per la terza volta, è tutt’altro che rassegnato al declino dell’ospedale del Sarrabus. Lo vede, intendiamoci: «Parliamo di ostetricia-ginecologia? I miei figli sono nati qui, a Muravera. Per dire quanto ci ho creduto. Ma eravamo scesi a ottanta parti l’anno. Divisi per otto ostetrici, significa che ciascuno faceva nascere dieci bambini all’anno. Due cesarei l’anno ciascuno. Troppo pochi per avere quella prontezza, quell’affidabiltà che viene solo dall’alto numero di interventi». I numeri, insiste Piu, in medicina contano: «Voi da quale meccanico portereste a riparare la vostra auto? Da quello che ne ripara dieci all’anno o da quello che ne ripara duecento all’anno?» Ma contano anche in termini di sostenibilità: «I cittadini reclamano la chirurgia d’emergenza.

Marco Noce

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