Orgosolo, la comunità ai funeralidi Giuseppe Mereu: pregate per lui
Giorni di sofferenza in carcere e poi la malattia. Giuseppe Mereu, condannato a 18 anni di reclusione per il sequestro dell'imprenditore Gianni Murgia, è tornato per l'ultima volta nella sua OrgosoloPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
''Santa Maria Mama de Deus, preca pro nois atteros peccatores...''. Quando la bara di noce chiara varca il portone, nella chiesa di San Pietro riecheggia la preghiera delle prioresse. Giuseppe Mereu torna a casa per l'addio dopo i giorni di sofferenza all'ospedale Brotzu di Caglieri e la penitenza in carcere. Lunghi anni trascorsi lontano, tra Siliqua e i muri della cella in cui era finito per il sequestro del possidente di Dolianova Gianni Murgia. Ma dentro quella bara di legno chiaro coperta di fiori è semplicemente Peppino o - come lo chiama il parroco don Michele Casula - il nostro fratello Peppino.
LA COMUNITÀ In chiesa tante donne, fuori gruppetti di uomini. «Accogliamo il nostro fratello Peppino con la preghiera, la solidarietà, l'amore», esordisce il sacerdote interpretando l'affetto di una comunità che non lascia soli i parenti - la moglie, i tre figli, fratelli e sorelle che qui vivono - al di là delle ombre che hanno segnato un'esistenza provata dalla condanna definitiva a 18 anni di carcere.
LA MESSA ''Affidiamo la sua storia personale a Dio. Solo Lui può dire una parola su ciascuno di noi'', dice don Casula dall'altare a conclusione di un'omelia dedicata a San Giovanni Battista di cui ieri ricorreva la festa liturgica. Il parroco bacchetta le storture attuali che Orgosolo condivide col mondo, dalla ''corsa all'apparire che sfocia spesso nella banalità dei rapporti'' a quella all'avere ''che trasforma tanta gente in maschere senz'anima». «C'è una grossa confusione morale'', dice proponendo l'esempio del santo. ''Guardando a Giovanni Battista vogliamo dire alla moglie e ai figli, coraggio: Dio non è lontano dal vostro dolore''.
I MISTERI In chiesa non c'è rabbia, neppure alcun riferimento alla travagliata vicenda umana di Peppino Mereu, alla sua inutile richiesta di stare in ospedale per motivi di salute e all'esposto presentato dalla famiglia dopo il decesso avvenuto venerdì a Cagliari, ultima appendice giudiziaria d'una vita scandita tra aule e processi. La moglie e i figli vogliono sapere se c'è qualche responsabilità sulla sua morte dovuta a un'insufficienza renale. Perciò hanno voluto l'autopsia sul corpo del congiunto, eseguita martedì a Cagliari. Invano avevano chiesto prima il ricovero in un ospedale. Mereu, dopo le visite di controllo, veniva invece sempre accompagnato nel centro clinico del carcere di Buoncammino perché - evidentemente - le sue condizioni erano considerate compatibili con la detenzione. La settimana scorsa, però, la situazione è precipitata. È arrivato il ricovero tante volte richiesto e il sì del giudice di sorveglianza agli arresti domiciliari. Venerdì la fine che ha lasciato tanti interrogativi tra i familiari.
A CASA Conclusi gli ultimi strazianti adempimenti, la salma ha lasciato Cagliari nella tarda mattinata di ieri. Dopo le 16 l'arrivo a Orgosolo, direttamente nella chiesa di San Pietro dove la comunità si ritrova soprattutto per i funerali perché sta accanto al cimitero. ''Il nostro fratello Peppino è tornato nella sua patria'', lo saluta don Casula. Parole che ricordano quelle impresse sui manifesti incollati sui muri di Orgosolo e firmate da fratelli e sorelle: ''È rientrata tra le sue amate montagne l'anima Libera del caro Peppino Mereu''.
LA STORIA I guai per Mereu erano iniziati con il sequestro di Gianni Murgia avvenuto il 20 ottobre del 1990 nella sua tenuta di Dolianova. Per gli inquirenti Mereu faceva parte del gruppo di prelievo. Ipotesi sostenuta dalla vittima che lo ha riconosciuto durante il viaggio in auto con i banditi. Ma Mereu, assieme ad altre persone, dichiarò la sua estraneità alla vicenda. I giudici non gli hanno creduto. Nel 1995 arrivò la prima condanna a 18 anni di carcere, confermata un anno dopo dalla Corte d'appello di Cagliari. Poi l'annullamento della Cassazione che ha disposto la ripetizione del processo. Nel 1998 la pena più severa: il Tribunale di Cagliari lo condannò a 27 anni. Ma la Cassazione poi li ha riportati definitivamente a 18.
Marilena Orunesu