Roma10301D. Nome, Lady Sofia . L'immatricolazione, assolutamente identica (Roma10301D) riappare sulla fiancata di Teide quando il grande yacht di venti metri, portato via dal porto di Villasimius la mattina del primo dicembre e trovato semiaffondato al largo dell'Isola dei Cavoli, riemerge dall'acqua. Difficile se non impossibile pensare che si tratti di due imbarcazioni diverse. Anche perché il nome, a dispetto delle tradizioni e delle credenze marinare che annunciano malasorte se ciò dovesse avvenire, può pur sempre essere cambiato. Non la “targa” rilasciata dopo l'iscrizione dal registro navale delle imbarcazioni da diporto. O meglio, non possono esserci due barche differenti con lo stesso numero di matricola.

L'ANIMA Lady Sofia e Teide, insomma, potrebbero davvero nascondere la stessa anima sotto un vestito solo leggermente diverso.

La prima, acquistata in leasing dall'imprenditore-assicuratore Pier Giuseppe Giua, era stata messa sotto sequestro nell'estate del 2008 dalla squadra mobile e il suo armatore arrestato con l'accusa di aver favorito l'immigrazione clandestina. In manette era finito anche il suo marinaio, Papa Alioune Diawara. A bordo, durante un viaggio in Tunisia, era salito il fratello del mozzo, poi sbarcato nel porticciolo turistico di Marina di Capitana. Un'accusa da cui Giua si era difeso tenacemente. Per l'assicuratore e i suoi avvocati il giovane nordafricano aveva raggiunto lo scalo di Quartu per incontrare il fratello marinaio e aiutarlo a pulire lo yacht, ma in Sardegna sarebbe arrivato non a bordo del Lady Sofia. Una vicenda che, dal punto di vista giudiziario, non si è ancora conclusa.

IL MISTERO Due anni dopo, quello yacht lungo quasi venti metri modello Mochi 65 torna alla ribalta della cronaca. Restituito alla banca, vera proprietaria, sarebbe stato rivenduto in leasing e riacquistato con un nuovo nome. Santa Sofia, ribattezzato Teide, sarebbe stato rubato dal porto turistico di Villasimius (è scritto nella denuncia presentata in Questura da uno dei proprietari, l'imprenditore cagliaritano Francesco Rapetti) la mattina dell'1° dicembre e poi affondato. O meglio, i ladri avrebbero cercato di farlo colare a picco senza riuscirci, tanto che la barca, affiorante dal mare con la prua, è stata avvistata dal comandante del traghetto della Tirrenia, Nomentana, nelle ore successive al naufragio. Così Teide-Lady Sofia è riemersa. Ad acquistarla, in leasing, erano stati due amici. Rapetti appunto e Alessandro Giua, docente universitario a Cagliari e fratello di Pier Giuseppe.

Rapetti, nei giorni scorsi, alle domande del cronista ha negato che si tratti della stessa imbarcazione. «Sono entrambi due Mochi ma Teide è leggermente più grande, ha una cabina in più».

La vicenda è quantomeno curiosa. E seppure il rapporto tra Teide e Lady Sofia non abbia alcuna attinenza con l'indagine aperta sullo yacht affondato al largo del Sarrabus e poi recuperato dalla Motomar, la Capitaneria di porto sta ricostruendo la storia di questo bellissimo anche se datato yacht di lusso addirittura preso a fucilate sul fianco per cercare di fargli raggiungere il fondale lontano dalla superficie ben ottocento metri.

IN PROCURA Intanto l'inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore della Repubblica di Cagliari, Enrico Lussu, va avanti. Bisognerà dare risposte a una vicenda tinta di giallo, dove le verità presunte dovranno essere messe da parte e sostituite con la verità vera.

Versioni diverse. Il furto, denunciato da Francesco Rapetti. In sintesi, Teide sarebbe stata portata via dalle banchine dello scalo di Villasimius da persone rimaste finora senza nome. Poi, al largo, quelle stesse persone avrebbero tentato l'impossibile per far sprofondare negli abissi il Mochi.

Non crede al furto e anzi nega che dal “suo” scalo possa uscire una barca, tra l'altro così grossa, senza che nessuno si accorga di nulla, il direttore, Amedeo Ferrigno. Anche se questo è avvenuto nelle ore di buio, verso le 6,30 del mattino quando l'alba è ancora lontana una trentina di minuti. Quattro persone sarebbero state viste su Teide da uno degli ormeggiatori. Mentre la moglie di Rapetti (è Ferrigno a raccontarlo) avrebbe telefonato tempo prima per annunciare l'arrivo di un uomo di fiducia del marito per trasferire a Cagliari lo yacht. Una telefonata che Francesco Rapetti nega. Un botta e risposta raccolto anche dagli inquirenti e dagli 007 del reparto operativo di polizia marittima della Guardia costiera guidati dal capitano di fregata Giulio Piroddi.

LE VERITÀ Insomma, una storiaccia. L'obiettivo dichiarato, al di là delle altri aspetti che contraddistinguono l'indagine, è quello di identificare chi la mattina del primo dicembre ha sciolto le cime d'attracco dal pontile M del porto turistico, è salito a bordo e ha acceso i due potenti motori, spingendo fuori dai moli Teide. Un'immagine che le telecamere aveva ripreso e documentato ma che sono state poi cancellate da altre, visto che l'impianto a circuito chiuso sovrappone le nuove registrazioni con le vecchie ogni 48 ore.

Possibile che delle quattro persone neppure una sia stata riconosciuta? In qualche modo identificata? Possibile che il personale dell'approdo non intervenga nel caso una delle imbarcazioni che occupano gli attracchi navighi verso l'esterno con al timone emeriti sconosciuti? Esistono, se così fosse davvero accaduto, responsabilità precise del porto? Oppure questa storia è ancor più complicata, con scenari tutti ancora da scrivere oltre che ipotizzare. I “marinai” avrebbero agito su commissione? Sciogliere la matassa è compito del magistrato, del pubblico ministero Lussu che ha già aperto un fascicolo formulando accuse (per ora contro ignoti) per furto, danneggiamento, naufragio e inquinamento.

Sabato mattina a bordo del Teide sono saliti anche gli inviati del Lloyd's di Londra, Salvatore Monaco, e della società di leasing, Danilo Frulla. I due periti hanno ispezionato a fondo lo yacht ormai in secca nelle nachine del porto della Motomar Sarda, la società amministrata dall'imprenditore cagliaritano Gianni Onorato incaricata dagli armatori di recuperare e poi trainare verso la salvezza la barca. Operazioni che sono iniziate con la messa in sicurezza dello yacht (bloccato in superficie dai palloni di galleggiamento per evitare il definitivamente affondamento), la parziale riemersione e la sua sistemazione in assetto di navigazione per poter iniziare la lunga traversata, al traino, verso Cagliari. Ore di navigazione assicurate dalla motobarca da pesca Gemini 2 sotto il controllo dei sommozzatori professionisti Gianni Usai, Giorgio Tocco e Marcello Melis (incaricati dalla società di lavori nautici e subacquei “Marittima” di Villasimnius) e la vigilanza della Guardia costiera.

LA SALVEZZA Il 9 mattina lo yacht di Rapetti e Giua galleggiava nelle acque del porto di Cagliari, ancorata al molo Sabaudo. Poi l'ultimo viaggio verso la Motomar, dove è stato definitivamente messo all'asciutto. Sequestrato, ma salvo. A disposizione della magistratura.

Per mandarlo a fondo avevano tentato di tutto. Aperti gli oblò, spalancato il boccaporto, manomesse le prese d'aria E ancora: trapanato la chiglia dall'interno della stiva. Poi, per vanificare la spinta di galleggiamento dell'aria contenuta nei serbatoi semivuoti di gasolio e non prevista, i “ladri”, dopo aver abbandonato Teide che aveva assunto una posizione verticale con la poppa sott'acqua e la prua galleggiante per salire su un'altra imbarcazione (forse lo stesso tender), hanno giocato l'ultima carta, scaricando diverse fucilate contro la chiglia, in prossimità della prua. Pallettoni e altri proiettili di diverso calibro per uccidere definitivamente il grande yacht bianco. Riuscendo però, soltanto a ferirlo ma non affondarlo.
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