Il tumore era benigno e se la paziente fosse stata operata subito sarebbe viva e vegeta. Invece è stata portata in sala operatoria otto giorni dopo il ricovero ed è morta per le complicanze post operatorie. I medici di Chirurgia generale del Brotzu avrebbero dovuto sollecitare la colonscopia invece di limitarsi a richiederla senza preoccuparsi di quando sarebbe stata eseguita, come se il loro compito si potesse esaurire con la semplice richiesta e non fosse importante conoscere l'esito di quell'esame specialistico in base al quale decidere se intervenire. La responsabilità di tutto questo è, anche, del primario Fausto Zamboni.

In 20 pagine i giudici del Tribunale del riesame (presidente Massimo Poddighe) spiegano perché, accogliendo le richieste del sostituto procuratore Maria Virgina Boi, giovedì scorso hanno vietato al quarantottenne chirurgo bresciano di effettuare gli interventi di chirurgia, trapianti esclusi, per due mesi. Il provvedimento comunque non è esecutivo, potrà diventarlo solo e soltanto se la Corte di Cassazione dovesse respingere il ricorso che l'avvocato Patrizio Rovelli depositerà nei prossimi giorni.

EGOCENTRICO Non usano mezzi termini i giudici nel motivare una decisione che non ha precedenti: ricordano che Zamboni ha altri procedimenti penali per omicidio colposo ma si concentrano interamente sulla morte di Wilma Carboni, una donna di 48 anni ricoverata al Brotzu il primo agosto 2008 con un'occlusione intestinale e morta nove giorni dopo l'intervento, effettuato l'8 agosto. I giudici descrivono Zamboni come un egocentrico, superficiale e irresponsabile, colpevole di non aver fatto in modo che la paziente fosse seguita dallo stesso medico, così deresponsabilizzando i suoi colleghi. Non solo: contestano il fatto che Zamboni si sia messo in ferie, senza dir niente a nessuno, il giorno successivo alla colonscopia, e di aver prolungato la sua assenza di un giorno pur sapendo che era di turno un medico senza esperienza, tanto che l'intervento lo ha effettuato un altro. E ancora: non ha mai parlato coi familiari della paziente e non si è preoccupato che nessuno lo facesse, e solo dopo otto giorni il marito della donna ha visto per la prima volta un medico.

APPROCCIO SCORRETTO Per il Tribunale del riesame non si è trattato di un episodio isolato ma di un approccio scorretto verso i pazienti che Zamboni vedrebbe solo in funzione della sua affermazione professionale. Questo sarebbe confermato anche dal comportamento tenuto davanti ai giudici: si è avvalso della facoltà di non rispondere ma ha fatto una lunga dichiarazione spontanea per sottolineare solo ed esclusivamente i suoi successi personali. Insomma: il Tribunale del riesame - che ha ribaltato la decisione con cui il giudice per le indagini preliminari Roberto Cau, il 22 marzo, pur riconoscendo la sussistenza di indizi di colpevolezza aveva negato la misura di interdizione dall'attività di chirurgia generale - ritengono che la condotta di Zamboni sia molto grave, addirittura ai limiti della cosiddetta colpa cosciente, un'aggravante del delitto colposo.

LA DIFESA L'avvocato Patrizio Rovelli ribadisce che ricorrerà per Cassazione contestando tutti gli argomenti a sostegno della misura interdittiva. Il penalista sottolinea come i giudici non abbiano posto a fondamento della loro decisione gli altri quattro procedimenti penali contro Zamboni: «Si tratta di casi sub iudice, tutti da accertare, il codice dice chiaramente che i carichi pendenti, a differenza dei precedenti penali, non possono essere utilizzati per motivare una misura cautelare». Nel merito Rovelli ricorda che «nei giorni 5, 6 e 7 agosto i medici avevano definito “buone” le condizioni della paziente. Perché Zamboni non sarebbe dovuto andare in ferie»?

M. F. CH.
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