Il paradosso vuole che ieri, per la prima parte della giornata, mentre si succedevano dichiarazioni di interdizione reciproca, sembrava che i principali nemici dell'accordo fossero i due leader dei partiti che dovevano sottoscriverlo, Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio.

Mentre un altro paradosso altrettanto singolare voleva che, in serata, in un turbolento tavolo di mediazione, l'uomo che cercava di stemperare (con successo) quest'ostilità fosse proprio quel Giuseppe Conte, ovvero colui che fino al giorno prima era (apparentemente) la pietra dello scandalo e il motivo della divisione tra Movimento 5 Stelle e Pd.

Due giorni fa si litigava sul premier, ora sul Viminale. Il problema è che, in queste ore concitate, se volete capire la vera posta della partita, non dovete guardare le apparenze - del tutto ingannevoli - ma la sostanza. E dovete immaginare che questo dialogo tra ex nemici - da un lato il cosiddetto "partito di Bibbiano", dall'altro, "l'armata degli incompetenti" e del "bibitaro" (Vincenzo De Luca dixit) - non vada letto con le categorie della politica tradizionale, ma con un mix di chiavi interpretative che oscillano fra una partita a scacchi e un videogame. "Di Maio vuole prendere tutto!", dicevano le veline di uno scandalizzato Pd. "Zingaretti e il Pd vogliono costringerci a digerire i loro vecchi arnesi!", si lamentavano off record i trapper del Movimento 5 Stelle. Il bello è che sono vere entrambe: da un lato è stata una partita a scacchi, perché come nel gioco, "ogni scelta - diceva in un bel libro lo scrittore Paolo Maurensig - comporta l'abbandono di tutte le altre alternative possibili".

Dall'altro, esattamente come nei videogame Adelaide generazione Cinque Stelle, per tre giorni Zingaretti e Di Maio sono morti e risorti. La sostanza, però è questa: Zingaretti dovrà accettare Di Maio nel governo. Mentre Di Maio dovrà rinunciare al sogno di portare a casa sia Palazzo Chigi che il Viminale. La montagna delle chiacchiere, delle ipotesi, dei veti incrociati tra gialli e rossi finirà oggi, infilata dentro l'imbuto del Quirinale. Solo a quel punto, davanti a Mattarella sarà pronunciato il fatidico "rien ne va plus".

A cosa sono serviti dunque i tavoli convocati, annullati, poi sostituiti da cabine di crisi? A tenere a bada i problemi interni dei leader: da un lato Zingaretti si è trovato di fronte alla squadra dei suoi negoziatori, e si erano già tutti assegnati (compreso l'ineffabile Andrea Marcucci), una poltrona di ministero. Dall'altro Di Maio si è trovato di fronte il fuoco di contraerea vero, quello di Alessandro Di Battista, che è uscito allo scoperto, per provare a raccogliere l'opposizione interna malpancista all'accordo nel M5S. È molto interessante, quindi che in questa fase tellurica e compulsiva in cui tutto poteva saltare, a garantire la tenuta siano stati due "padri nobili". Da un lato Pier Luigi Bersani, che parlando al suo ex partito, ha fatto il gesto simbolico di autocritica che i Cinque Stelle aspettavano: "Abbiamo ammucchiato il Movimento ai barbari, i populisti. E non abbiamo capito le istanze che ci stava rappresentando. È stato un errore". E dall'altro è stato Conte a sedare le ultime tentazioni di Di Maio di approfittare in extremis di un secondo forno con la Lega. Ieri, le ultime seducenti profferte del Carroccio, sono arrivate per bocca del ministro Gianmarco Centinaio: "Tutte le richieste che il M5S sta facendo al Pd, siamo pronti a concederle, sono già nel programma comune".

Non è un mistero, che al fianco di questo offerta, la Lega abbia messo sul piatto una proposta choc, la poltrona di Palazzo Chigi per Di Maio. È qui che Conte è stato decisivo, quando ha detto al leader del M5S: "Se vuoi fare questo io non sarò al tuo fianco". Ma poi il premier si è spinto più in là, avvisando che se quella trattativa non si fosse chiusa, si sarebbe andati al voto. Il resto sono dettagli: se Di Maio fa cappotto sarà anche vicepremier. Se Zingaretti raggiunge i suoi obiettivi avrà i ministeri economici e le infrastrutture. Poi, il problema non sarà durare, ma convincere i propri elettori.

Luca Telese
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