Nanni Fodde: «Il buon gusto e la parsimonia mi hanno salvato»
Il patriarca dell’Acentro si racconta: l’azienda, la famiglia e lo sguardo su 100 anni di vita. Appassionato di arte, senza mai perdere il sarcasmo parla anche del suo carattere ruvido e fotografa il rischio d’impresaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Si è concesso «vezzi, non lussi». È stato «parsimonioso, non avaro». Il primo ruggito del patriarca è un esercizio di contrapposizione tra la percezione del sé e quel che «di me si diceva in giro». Sullo smalto del sarcasmo nessun segno del tempo. Ma per maneggiare carattere e opere di Giovanni (Nanni) Fodde è sufficiente un particolare: il signor Acentro, diecimila macchine vendute all’anno quando la media nazionale valeva un terzo in meno, in vita sua ha scelto tutto, persino il giorno di nascita. L’8 agosto. Sotto il segno del Leone. Era il 1925. Un secolo fa. «Ma a partire dal 5 del mese, ogni data sarebbe buona per festeggiare il compleanno». Il capostipite di tre generazioni dell’auto – non fosse altro che «il timone bisogna cederlo pur senza sentirsi inutili» – si racconta dalla sala riunioni che ha frequentato di più. Via Calamattia (un tempo si entrava da via dei Valenzani), primo piano. Oggi 150 dipendenti, nove sedi, 140 milioni di fatturato. Il mondo fuori, i quadri dentro. «Ho letto più giornali che libri – racconta – e l’arte è stata una mia distrazione».
In cento anni quante stagioni ci sono?
«Una. Per me è sempre stata quella del lavoro».
Perché la Fiat?
«Abbandonata la vendita dei trattori Ford, decisi di dare una mano a due collaboratori che erano stati contattati dal concessionario di Cagliari. C’era da smaltire il magazzino di viale Monastir, la guerra aveva bloccato il mercato. Fu durante quella collaborazione che mi venne offerta la possibilità di aprire una sede mia».
Dove?
«A Senorbì Nord. Si chiamava Auto Trexenta. A Torino stavano attenti al fatto che tra concessionari non ci si portasse via quote di mercato. Fosse stato per me, avrei aperto a Sanluri, ma fecero resistenze da Oristano. Allora a Senorbì c’era una sola strada che portava fuori dal paese».
Con l’Acentro quando inizia?
«Negli anni Cinquanta».
Il nome chi l’ha scelto?
«Io. Era la contrazione tra auto e centro. Mi sembrava un buon marchio di provincia».
Davvero in vita sua ha lavorato e basta?
«Ho praticato molto anche la vela, ho posseduto natanti. Bellissime barche d'epoca».
Cosa avrebbe voluto fare meglio?
«L’esperienza mi farebbe giudicare sbagliate tante scelte. Ricadrei persino nei rimpianti. Solo chi sta fermo, non commette errori. A me non è mancata la curiosità, ho fatto molti mestieri».
Quali altri?
«A Roma, mentre davo qualche esame in Economia e Commercio, vendevo il sughero. Per tappi e solette. Sughero rimasto ugualmente nei magazzini per via della guerra. Fu l’ennesima intuizione di mio padre. Un uomo eccezionale. Si chiamava Antonio, era di Cuglieri. Scriveva la corrispondenza commerciale in gotico e corsivo. Venne a Cagliari per proseguire l’attività olearia e sposò mia madre, Delfina Manunza, di Selargius».
Prima si facevano più affari?
«Forse la concorrenza si è inasprita. Ma non direi che si facevano più affari. Oggi come allora bisogna essere preparati per affrontare un mestiere».
Un comandamento professionale ce l’ha?
«L’ho sempre ripetuto ai miei collaboratori: è necessario lavorare nell’interesse della propria azienda».
È stato gentile con i suoi dipendenti?
«Mi arrabbiavo, quando era il caso».
Il rischio d’impresa cos’è?
«Una questione anagrafica. L’esposizione ai problemi capita più spesso in gioventù. Poi con l’età e l’esperienza si diventa molto più pratici e meno romantici».
Che rapporto ha con i soldi?
«Non li porto più in tasca, ho paura di perderli. Fortunatamente mi accompagnano e si prendono cura di me. I soldi comunque non li ho mai sprecati: ho guadagnato bene, ma li ho anche persi. Su di me si dice che sia avaro. Invece mi faccio un complimento: sono parsimonioso».
L’accompagna pure la fama di ruvido, caratterialmente.
«Da giovane ero più acceso. Poi ho smesso, adesso quasi mai perdo le staffe».
Spigoloso ai limiti dell’arroganza?
«Esattamente. Nella vita mi ha salvato il buon gusto, oltre al fatto di non aver mai sprecato nulla».
Però per l’arte ha speso?
«L’arte è salvifica. I pittori Pietro Antonio Manca e Ausonio Tanda li ho frequentati, tramite un amico gallurese, un grande critico d’arte che guidava l’Ufficio legale della Regione».
Quanto vive di ricordi?
«I ricordi aiutano a conservare la vita. Un po’ la memoria la sto perdendo, sono preoccupato. Ma alla mia età succede e bisogna accettarlo».
È un uomo libero?
«Sentimentalmente mai, per via di due mogli. Politicamente sì, mi sono sempre definito un liberale. Da giovane mi entusiasmavo ai comizi: seguivo con interesse gli idoli del momento, come Ciccio Cocco Ortu».
Una stretta di mano che non dimentica?
«Ho conosciuto tanta gente importante. Ma l’altro giorno un medico mi ha stretto calorosamente la mano: avevo l’influenza e mi ha visitato. Sono rimasto colpito».
Da cosa?
«Le relazioni umane sono importanti. Non le cerco, ma quanto le trovo o le intuisco, faccio di tutto per curarle. Le apprezzo».
I fratelli Umberto e Giovanni Agnelli?
«Il primo l’ho incontrato più spesso. Il secondo, l’Avvocato, era distante».
Un divo?
«Era idolatrato, ho assistito a scene di fanatismo».
I suoi grandi amici?
«Pochissimi, una decina. Poi cominciano a diminuire di grado».
Chi frequenta più spesso?
«Oggi quasi solo la mia famiglia».
È stato un buon padre?
«No, c’è di meglio».
Quanti figli ha?
«Quattro».
Cosa si rimprovera come genitore?
«Semplicemente con i miei figli avrei potuto fare più cose insieme».
Ha sacrificato la famiglia per il lavoro?
«L’ho anche sacrificata per qualcosa di piacevole, come andare in barca o giocare a golf».
Si dice che sia stato lei a portare il golf in Sardegna.
«Venni incaricato di farlo da alcuni amici della Federazione nazionale».
La povertà l’ha conosciuta?
«No, ho sempre lavorato».
Ha mai fatto una cosa folle?
«Mi è capitato di inseguire qualche novità sul lavoro, commettendo errori».
L’impressione è che sia un perfezionista.
«È una forma di rispetto anche verso se stessi, l’ho praticata per tutta la vita. Ho fatto ogni cosa con passione e cercando il risultato. Ho un ricordo da giovane, nel frantoio di mio padre: trovai il modo di ridurre i costi di lavorazione della materia prima rivendendo gli scarti della deacidificazione dell’olio».
Ha mai contato le macchine vendute?
«Le poche volte che mi sono fatto la domanda, penso che siamo arrivati a quota 100mila. O forse è il prossimo traguardo, non saprei di preciso. Io, in ogni caso, mi sono occupato di dirigere, non di vendere. Da tempo le redini dell’Acentro le ha mio figlio Enrico, più di recente è entrato anche mio nipote Giovanni. Io, però, l’azienda continuo a difenderla».
Lussi?
«Nessuno, ho condotto e conduco una vita modesta».
Al polso cos’ha?
«Un semplicissimo Swatch».
Vezzi?
«Le iniziali sulla camicia».
Usando come nome Giovanni o Nanni?
«Non ricordo. Ma Nanni lo preferisco. Lo sento più mio, mi piace che sia breve».
Manie?
«Ne abbiamo tutti così tante, specie con l’età tendiamo a essere ripetitivi. Non saprei dirne una».
Rapporto con la tecnologia?
«Nessuno. Uso sempre meno anche il telefonino. Questo che ho costa 45 euro».
Il complimento migliore che ha ricevuto?
«Non uno in particolare. Nella nostra azienda il lavoro è quotidiano. I risultati arrivano ogni giorno. Come i complimenti. Riceverli, di certo, fa bene alla salute».
Nelle nuove generazioni cosa vede?
«Non si può dire nulla quando dei bambini rubano un’auto, vanno in giro per la città e provocano la morte di una passante. Notizia di questi giorni».
Vede un brutto mondo?
«Rimango vigliaccamente distaccato, per fortuna non ho problemi di questo genere».
Cosa la inquieta più di tutto?
«Un po’ la mia sordità, altro acciacco dell’età, e l’artrosi».
L’aveva immaginato che sarebbe arrivato a cent’anni?
«Ho cominciato a crederci dopo i novanta».
Un rammarico?
«Sono monotono: nel lavoro avrei voluto sbagliare di meno».
Perché questo pensiero ricorrente sugli errori?
«È una forma di vanità».
Si considera vanitoso?
«Da sempre, lo sono anche adesso a cent’anni».
È felice della sua vita?
«Sì, anche perché non ne ho un’altra».
A quanti anni vuole arrivare?
«Non saprei».
Centocinque le bastano?
«Ci provo».
È ora di pranzo. Giovanni Fodde si alza dalla sedia. «Sono leggermente commosso, con queste domande mi sono ricordato tante cose della mia vita». Questa volta è lui a stringere mani calorosamente. A cent’anni non si smette di essere galantuomini.
Alessandra Carta