L’avvio al pensionamento dei nati intorno alla metà degli anni Sessanta segna il punto di non ritorno. Altro che inverno demografico, ormai si va dritti verso la catastrofe. Le nostre comunità saranno fatte di pochissime anime, vecchie, e sole, perché anche le famiglie sono entità in via d’estinzione. E se oggi in Sardegna ci sono 58 persone non attive ogni 100 che lavorano (un dato in linea con la media nazionale), si stima che in un futuro non tanto lontano, nel 2050, il rapporto sarà di uno a uno, e nessun’altra regione d’Italia avrà uno squilibrio così critico tra chi non lavora e chi ha un’occupazione e contribuisce a sostenere lo Stato sociale.
Dalle previsioni sulla popolazione elaborate dal Crei Acli su dati Istat, l’Isola continua a registrare le peggiori performance in quasi tutti gli indicatori, mentre a livello strategico-politico non si intravedono contromisure efficaci per invertire la rotta.
Il quadro
«Sono dati allarmanti», dice il presidente regionale Acli Mauro Carta, «bisogna preoccuparsi perché prosegue il trend negativo della “scomparsa” dei giovani: non nascono bambini, i ragazzi vanno a studiare fuori e poi, una volta laureati e specializzati, non tornano, di conseguenza continuano a mancare sempre più le coppie in età fertile. Inoltre, dato che mancano i programmi per incentivare i giovani a venire a formarsi qui, non riusciamo neppure in piccola parte a colmare i deficit generazionali con gli “immigrati”, che potrebbero essere i nipoti nati all’estero dei nostri vecchi, i parenti degli emigrati, che avrebbero perfino le case familiari disabitate, se solo riuscissimo a credere veramente in questa scommessa possibile».
Lo squilibrio
Dunque, il focus è sull’indice di dipendenza strutturale, cioè il rapporto tra popolazione non attiva – da 0 a 14 anni e dai 65 anni in su – e quella attiva (dai 15 ai 64 anni). Se oggi in Sardegna sono 58 le persone “a carico” di 100 occupate, tra venticinque anni saranno una contro una.
Spiega Vania Statzu, che insieme con Silvia Talana ha sviluppato i dati: «Quando l’indice supera 50, significa che c’è uno squilibrio del sistema, e noi siamo già in questa situazione difficile. Se i cittadini che lavorano e pagano le tasse sono meno di quelli che non lo fanno, il welfare, la sanità, i servizi socio-assistenziali – di cui ovviamente si sente maggiormente la necessità con l’invecchiamento della società – non regge. Per questo i governi tendono a voler ritardare l’età per la pensione, per provare a tenere in equilibrio il sistema, ma queste politiche contribuiscono – in un mercato del lavoro ristretto – a ostacolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Ancora, abbiamo i dipendenti pubblici più anziani d’Europa, un fatto che si ripercuote pesantemente sull’efficienza e la modernità della macchina. Stesso discorso per le aziende private, che non riescono a reclutare forze fresche e perdono in competitività».
I numeri
Come emerge dal rapporto Acli, tutti gli indicatori demografici dell’Isola tendono al peggio. La popolazione si riduce progressivamente – oggi siamo a quota 1.561.339, e in poco meno di cinque anni perderemo 54.762 residenti, nel 2031 saremo meno di 1,5 milioni, nel 2050 meno di 1 milione 250mila, dal 2067 meno di un milione, nel 2080 circa 850mila. Un calo netto del 45,74%, molto superiore a quello che si verificherà in media a livello nazionale.
Tra cinque anni gli under 14 saranno l’8,3% del totale dei sardi, e rimarrà sotto il 10% anche in seguito, «consolidando così», avvertono i ricercatori, «il nostro triste primato».
La scommessa
Chi se lo può permettere manda i figli a studiare fuori, almeno a Milano, se non in Inghilterra o negli Stati Uniti. Perché, banalmente, poi lì è più facile trovare un lavoro, ben remunerato e con opportunità di carriera. «Eppure, anche la Sardegna potrebbe essere attrattiva per molti ragazzi stranieri, provenienti da Paesi svantaggiati per diversi motivi. Le nostre Università offrono ottimi livelli di preparazione, e la nostra terra ha incentivi naturali come il clima, il mare, la qualità della vita elevata», aggiunge Carta. «Noi, come Acli, stiamo provando a lanciare campagne e concorsi di idee per richiamare giovani, dal Sud America in particolare, dall’Argentina e dal Brasile, ma servirebbe il coinvolgimento dei Comuni e della Regione, per creare programmi strategici solidi che abbraccino istruzione, lavoro, accoglienza, integrazione».
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