La ricerca delle prove

Roberto Demontis: «Sfido ogni giorno  i misteri della morte» 

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L a decisione è di fine anni Settanta: «Mi laureo in Medicina e poi faccio il medico legale», pensò l’adolescente cagliaritano Roberto Demontis. A dire il vero, non l’ha solo pensato: l’ha proprio fatto. Galeotto fu il telefilm “Quincy”: «Lo guardavo, mi appassionava come riuscisse a risolvere i casi di omicidio più complicati studiando la scena del delitto e il cadavere della vittima».

D’accordo, ma da adolescenti tutti pensiamo di fare il pompiere oppure il cantante, l’attore o il Papa. Lei si è immaginato fra i cadaveri, peraltro frutto di morti violente.

«Evidentemente sì, visto com’è andata. E non me ne sono mai pentito: la medicina legale è estremamente interessante, difficile e richiede molto rigore. E dà risposte, questo mi piace».

Cambiano i tempi, e con essi cambiano le “scuole di pensiero”: qualche decennio fa il medico legale era uno che «tagliava cadaveri» e la gente lo guardava con qualche brivido. Poi dagli Stati Uniti sono arrivate le serie tv in cui il coroner (il medico legale, appunto) era protagonista, risolveva i casi giudiziari più intricati e in qualche caso - come ad esempio il dottor Donald Mallard, serie tv Ncis - il personaggio del coroner è stato disegnato con i tratti del genio, coltissimo in tutti i settori e dotato di grande senso di umanità. «Ma quelli sono telefilm», ridacchia Roberto Demontis, 63 anni, cagliaritano, che il coroner («No, il medico legale», corregge lui) lo fa dal 1992. Sposato, tre figli, laureato a Cagliari, specializzato a Roma all’Università di Tor Vergata, dottorato in Criminalistica e master in Odontostomatologia forense, ora è direttore della struttura complessa di Medicina legale dove ha sei colleghi su cui contare e ha sede all’Oncologico Businco di Cagliari, quindi all’Arnas Brotzu. Però è un medico universitario, infatti insegna all’Ateneo cagliaritano. Ama ridere e scherzare, adora i momenti di leggerezza, ma spacca la sua vita in due: quando si lavora e quando non si lavora. Riuscendo a essere due persone simili, ma non le stesse. In poche parole, «in sala autopsie ci mando il dottor Demontis, mai Roberto». Tant’è vero che, una volta, gli capitò di fare la perizia necroscopica a un parente: «Lo feci senza pensarci. Lo feci e basta. Così come l’oncologo davanti al paziente bambino senza più speranza, anche il medico legale dev’essere impassibile».

Quanto interferiscono le emozioni, nel suo lavoro?

«Il giorno in cui mi coglierà un’emozione, smetterò di fare le autopsie e i sopralluoghi sulla scena del crimine».

Addirittura.

«Il principale segreto del nostro lavoro è non provarle proprio, le emozioni, perché conducono su piste sbagliate. Io analizzo, ho un corpo da intervistare con gli occhi, da osservare nel dettaglio, da leggere attraverso esami di laboratorio che richiedono tempo come ad esempio quello tossicologico. Devo studiare dove sono le ferite per ricostruire la dinamica del delitto, assegnare le posizioni di vittima e assassino nella scena del crimine, capire chi e che cosa ha ucciso una persona. E anche se è realmente un omicidio. A proposito: l’analisi del luogo del delitto è importante quanto l’autopsia, infatti chiedo sempre di poterla vedere prima che le forze dell’ordine e perfino la Scientifica della polizia o i Ris dei carabinieri possano modificarla. Ci sono dettagli decisivi, e il medico legale fa la sua indagine sulla base di parametri diversi da quelli utilizzati dagli investigatori».

I medici legali delle serie tv americane parlano con i cadaveri e sostengono che, in qualche modo, rispondano.

«Nei telefilm tutto si può fare, ma poi la vita vera è un’altra cosa. Non parlo con i morti ma è vero che in un certo senso loro lo fanno con me, ovviamente non con le parole. Osservandoli, scopro tante cose di loro in generale, a partire dalle malattie di cui soffrivano, e soprattutto come sono deceduti».

Ma ci saranno “pazienti” speciali. I bambini, ad esempio.

«No, nessuno può essere speciale. Io cerco tracce sempre, e sempre le seguo per scoprire la quantità massima di verità possibile. Il metodo non deve cambiare, a meno che non ci siano nuovi strumenti d’indagine forense: ca mbia solo chi ho sul tavolo e io mi concentro sul lavoro. Poi, ripulisco la mente e non ci penso più».

Ma ci sarà pure un caso che ricorda più di altri.

«Ovviamente sì, tutti ricordiamo le anomalie statistiche e le stranezze che troviamo nel nostro lavoro. Posso dire di quell’autopsia in cui ho visto una cosa nuova: l’assassino scuoiò il volto della vittima. Essendo un regolamento di conti fra criminali, il senso era: “Hai perso la faccia”. E poi un caso nell’Oristanese: un cadavere fatto a pezzi e sparso all’aperto. Passai quindici giorni a cercarli e raccoglierli. Ancora: mi accorsi, dall’esame della scena del crimine, che l’assassino era claudicante: lo indicavano le impronte. Ed era così, fu arrestato e condannato».

Quando un suo esame è stato decisivo per trovare il colpevole?

«I nostri esami lo sono spesso. Una volta, un caso che si stava per archiviare come suicidio è divenuto un’indagine per omicidio. In generale, il medico legale è spesso determinante».

E capita che il medico legale faccia prosciogliere un sospettato?

«Eccome: spesso troviamo gli assassini, in altri casi capiamo che il sospettato non è l’assassino».

Il suo primo caso?

«L’autopsia di un feto morto in utero».

Niente vi sarà risparmiato.

«È nelle cose: siamo medici legali».

Le donne non uccidono?

«Pochissimo, generalmente per difendersi da mariti o compagni violenti. Usano armi bianche, cioè lame».

Eliminano quelli che poi, se non lo fanno, le uccidono?

«In certi casi, sì».

Gli assassini sardi sono più o meno cattivi rispetto alla media?

«Il numero degli omicidi è stabile da una ventina d’anni. È cambiato il movente: prima era per punire l’abigeato, o per le faide, invece ora sono appunto più passionali, legati a tradimenti, senza differenze per il grado di crudeltà rispetto al resto d’Italia».

Tanti cervelli, in giro, sono rovinati da abusi di alcol e droghe, soprattutto nell’adolescenza.

«Vero, e questo ha un peso sugli omicidi: non controllano la violenza e i danni creati dalle sostanze in giovane età sono ben presenti per tutto il resto della vita».

Passiamo alle tristezze non dei morti, ma dei vivi. Lei è assessore alle Politiche sociali del Comune di Sinnai. Dove trova la forza?

«Mi realizzo quando riesco a compiere un progetto. Ad esempio, Sinnai è stato uno dei primi Comuni cardioprotetti, perché abbiamo fatto installare i defibrillatori in giro. Poi organizziamo corsi di primo soccorso ed è un mondo di vivi che mi aiuta a compensare quello dei morti. In Comune ho una buona squadra, e un’altra ce l’ho nella struttura complessa di Medicina legale».

Lei è credente. Trova mai Dio durante le autopsie?

«No, mai. Trovo indizi e prove, sono concentrato su quello perché è ciò che mi si richiede, quindi devo mantenere la freddezza. Devo affermare qualcosa solo quando trovo i riscontri e quindi sono focalizzato sulla ricerca».

Però, in un corpo martoriato dalla violenza, almeno Satana qu alche volta l’avrà intravisto.

«Non ho di queste frequentazioni, nemmeno sul lavoro. L’ho detto: se un giorno mi ritrovassi a provare qualche emozione durante un’autopsia o l’analisi di una scena del crimine, quello sarà il mio ultimo giorno sul campo e lascerò lavorare solo la mia squadra. Fede, emozioni, per il medico legale sono sovrastrutture, dunque un lusso che non si può permettere. Solo le prove hanno diritto di parola, in questo lavoro dove l’ego si deve annullare. Poi spegni la luce nella sala e te ne vai, e a quel punto vivi tutte le emozioni che vuoi, ma con una regola: finita l’autopsia, io manco mi ricordo il volto della persona che avevo sul tavolo, con due vantaggi. Il primo è poter avere una vita totalmente al di fuori di questo, l’altro è di dare al pm o al giudice un supporto credibile e scientifico per trovare l’assassino. Quello giusto».

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