Intervista

«Mafiosi a Uta Rischi concreti di infiltrazioni» 

Arena, provveditore delle carceri: patto sulla sicurezza con la Regione 

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Lassù, nel suo ufficio sul colle di Buoncammino, il frastuono della città non arriva. Ma l’eco delle polemiche sì: Domenico Arena ci si è trovato in mezzo dopo aver disertato la convocazione in Consiglio regionale sul caso dei mafiosi a Uta. Da gennaio è il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria: in pratica il superdirettore di tutte le carceri sarde, e insieme ai responsabili dei vari penitenziari ha saltato l’audizione con le commissioni Lavoro e Sanità sul trasferimento a Uta di 92 detenuti in regime di 41 bis.

La politica non l’ha presa bene, e ha criticato l’assenza del Dap. Assenza che contrasta con la linea seguita fin qui dal nuovo provveditore, che anzi pratica il confronto intenso con le istituzioni e predica l’integrazione tra carcere e territorio: perciò molti ipotizzano una scelta dettata dal ministero della Giustizia. Arena sul punto non può dire molto, per via del suo ruolo (per altro assai limitato sul trasferimento dei boss mafiosi, gestito solo dal ministero). Ma non si sottrae a qualche riflessione: «Devo dire che mi è dispiaciuto molto non partecipare all’audizione», confessa, «credo nella necessità di un rapporto corretto con le istituzioni. Erano dispiaciuti anche gli altri colleghi: avremmo voluto portare un nostro contributo, ma non abbiamo potuto».

Allora è vero che vi è stato ordinato di ignorare la convocazione del Consiglio?

«Non posso commentare nel dettaglio la vicenda. Mi limito a rilevare che il tema dell’eventuale trasferimento a Uta dei detenuti in regime di 41 bis è riservato alla competenza del Dap nazionale».

Anche secondo lei l’arrivo dei boss potrebbe generare infiltrazioni della criminalità organizzata?

«Come sardo adottivo, anch’io mi preoccupo dei rischi per la sicurezza di questa terra, già evidenziati da altre figure più autorevoli di me».

Allude al procuratore Patronaggio?

«Per esempio. La storia di questo Paese ci insegna che quei rischi di infiltrazioni sono tutt’altro che ipotetici, direi anzi molto concreti. Ma si possono fronteggiare c on una strategia comune che coinvolga l’amministrazione penitenziaria, la Regione, gli enti locali, le forze dell’ordine, la magistratura e così via».

La sanità penitenziaria è un grave problema. L’afflusso dei 41 bis può aggravarlo?

«Può mettere ulteriormente a nudo la fragilità del sistema. I detenuti in regime di 41 bis sono in media più anziani e con bisogni di salute superiori rispetto al resto della popolazione carceraria. Che a sua volta ha bisogni superiori alla media degli italiani. D a quando sono in Sardegna dedico molto tempo a sollecitare interventi sulla sanità. Siamo molto indietro: una delibera della Regione del 2017 istituiva un sistema integrato tra gli istituti di detenzione e i presìdi sanitari territoriali, ma è sostanzialmente inattuata».

Cosa prevede?

«Dai servizi medici di base negli istituti alle prestazioni specialistiche, fino ai cosiddetti “repartini”, cioè i reparti detentivi negli ospedali, previsti per legge in ogni capoluogo di provincia, ma di fatto inesistenti. Di recente ho visitato quello del Santissima Trinità di Cagliari, realizzato a inizio secolo e mai aperto. Una delibera dell’assessorato alla Sanità ne dispone l’apertura, ma temo che siamo ancora lontani. Ho incontrato la presidente Todde e l’assessore Bartolazzi, vedo che c’è la volontà politica di intervenire sul punto, ma fatica molto a tradursi in atti concreti. H anno garantito massimo impegno, io rilevo che c’è grande urgenza ».

È un problema di risorse?

«Risorse, personale, carenze generali: tanti fattori. In più, in carcere il mestiere del medico è, se possibile, più pesante. Quindi sono cruciali gli incentivi. Il problema non riguarda solo i detenuti, ma tutti i cittadini: se non si possono fare visite specialistiche in carcere, dobbiamo far viaggiare i detenuti sulla viabilità comune, spesso per centinaia di chilometri, con quel che comporta per la sicurezza. Altrettanto può dirsi quando, mancando i “repartini”, dobbiamo ricoverare dei detenuti in corsia, insieme ai pazienti liberi».

Problema che si porrà anche per i 41 bis.

«A maggior ragione».

Altro guaio delle carceri isolane: il sovraffollamento.

«Nei dieci istituti abbiamo 2.351 posti, e poco più di 2.300 reclusi: più che un sovraffollamento complessivo, c’è una cattiva distribuzione. Perché alcuni istituti sono sovraccarichi: Cagliari ha 690 detenuti e ne potrebbe ospitare 561, Sassari ne ha 542 a fronte di una capienza di 453».

Quindi altri sono semivuoti.

«La Sardegna ha tre delle quattro colonie penali d’Italia, ma sono sottoutilizzate. Isili ha 94 detenuti e 107 posti, Mamone 223 contro 274, Is Arenas 89 contro 126. Non è solo questione di numeri: s e uno, all’inizio della detenzione, vede la possibilità di conquistare spazi di autonomia, di imparare un lavoro, questo da un lato agevola la gestione della quotidianità negli istituti, dall’altro delinea un percorso educativo al termine del quale chi rientra nella comunità libera sarà un valore aggiunto. Le colonie consentono di farlo meglio, e con un numero molto ridotto di eventi critici».

Suicidi, autolesionismo…

«Sì, gli eventi di questo tipo. Nelle colonie le persone lavorano all’aperto, retribuite; danno senso alla detenzione, producono cose concrete: salumi, ortofrutta, conserve, latte, formaggi. Abbiamo un marchio registrato, “Galeghiotto”, per i prodotti delle colonie penali, finora destinati solo al consumo interno: il prossimo traguardo sarà la commercializzazione esterna».

Quando accadrà?

«Spero entro un anno. Non in modo massiccio, giusto qualche punto vendita: non lo si fa per interesse economico, ma come segno dell’integrazione tra sistema carcerario e territorio, che è un vantaggio per l’intera comunità. L e colonie penali possono aiutare i territori per almeno tre aspetti: contrasto agli incendi; progetti di turismo ecosostenibile; contrasto allo spopolamento delle zone interne. Queste persone imparano mestieri che facciamo sempre più fatica a trovare. Anche su questi temi abbiamo avviato un’interlocuzione serrata con la Regione».

Con quali risultati?

«Ho riscontrato grande interesse. Serve un patto che coinvolga le istituzioni, Regione e Comuni ma non solo, e pure il mondo produttivo».

Perché allora le colonie sono sottoutilizzate? È vero che a volte sono gli stessi detenuti a non volerci andare?

«C’è questa narrazione, ma io credo che sia soprattutto una fragilità culturale nostra, del sistema. Quando sono arrivato qui, le persone nelle colonie erano molte meno. Ne abbiamo trasferito già più di 120. Ovviamente con un lavoro importante di selezione».

Potete trasferirli anche contro il loro volere?

«Potremmo, ma non ha senso. L’individuo deve collaborare al progetto. Però quando cerchi soggetti idonei, li trovi. Certo, serve il coraggio di investire sulle persone. E ogni investimento ha un margine di rischio. Ma se lo si fa in base a un’osservazione accurata, spesso i risultati sono molto buoni. Le colonie possono diventare il punto più avanzato di un percorso in cui il carcere non è un peso per la comunità che lo ospita, ma una risorsa».

Difficile, per i penitenziari inseriti in contesti urbani.

«Non sempre. Per esempio Alghero si presta a una progressiva uscita delle persone dalle mura del carcere, in prossimità del fine pena, per lavorare. Si è creata una filiera virtuosa con l’istituto alberghiero: i detenuti lo frequentano e sviluppano competenze in base alle quali poi vengono chiamati da aziende del territorio».

A proposito di carceri in città: quando Cagliari potrà riavere Buoncammino?

«È un bene demaniale e in questi mesi c’è stata una forte accelerazione, proprio grazie al lavoro dell’Agenzia del Demanio, per unire i soggetti interessati, a partire dal Comune di Cagliari, e trovare risorse per ristrutturarlo. L’obiettivo è far sì che, oltre a ospitare i nostri uffici, possa essere restituito come luogo vivo per la città, sempre in quell’ottica di integrazione con la comunità».

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