Intervista

«Guerre, jihadisti e maschilismo Me la sono cercata» 

Giuliana Sgrena a vent’anni dal rapimento in Iraq: per il caso Calipari mi chiesero le spese processuali 

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A chi ama l’informazione sembra l’altro ieri, ma era il 2005 quando Giuliana Sgrena – firma del Manifesto, Die Zeit e Modus Vivendi - fu sequestrata da un gruppo armato iracheno mentre raccontava il paese invaso dagli americani. Il sollievo per la sua liberazione fu tragicamente bilanciato dallo choc per la morte di Nicola Calipari, il funzionario dell’intelligence che gestì la trattativa per il suo rilascio e fu ucciso da un militare americano mentre la portava in salvo. Il suo nuovo libro, che ieri sera ha presentato a Quartu al festival Chiavi di Volta – ArgoNautilus 2025, arriva a vent’anni dalla vicenda e ha un titolo che sa di sfida: “Me la sono andata a cercare – Diari di una reporter di guerra”. Spiega Sgrena: «Dopo il mio rapimento per vent’anni sono stata perseguitata dall’accusa di essermela andata a cercare. Ho sempre risposto che facevo semplicemente il mio lavoro di giornalista, cercare informazioni e verificarle. Lo stavo facendo anche quel giorno, verificavo una scoperta che avevo fatto».

Quale?

«L’uso del fosforo bianco da parte degli americani, che avevano invaso l’Iraq sostenendo Saddam avesse armi di distruzione di massa che invece non aveva. Ecco, quando cercavo di contrastare quelle accuse spiegavo questo. Ma dopo vent’anni ho ripercorso i viaggi fatti nei decenni, dall’Algeria alla Somalia, dall’Afghanistan all’Eritrea, e ho verificato che in tutti i casi avevo rischiato, a volte molto più che in Iraq. E ho deciso di rispondere che sì, me la sono andata a cercare. Come tanti colleghi, del resto, perché per informare su quelle situazioni bisognava rischiare. Certo, il minimo possibile e prendendo tutte le precauzioni, che però non sempre sono sufficienti».

Le giornaliste sono più colpevolizzate dei giornalisti?

«Sicuramente. Se gli succede qualcosa, un giornalista maschio è sempre un eroe. Se capita a una giornalista, i casi sono due: se torna in una bara “aveva fatto uno scoop”, anche se non è vero. Se torna viva, se l’è andata a cercare. Biagi disse che se fossi rimasta a casa a fare la calza non mi sarebbe successo nulla».

Il maschilismo è diffuso anche tra i giornalisti.

«Finché ero in ostaggio no, ma dopo ad accusarmi di essermela cercata furono anche dei colleghi. Alcuni erano con me a Baghdad, anche se non si muovevano dall’hotel».

Tu scrivi che la tecnologia peggiora l’informazione.

«Leggo la trasformazione del giornalismo attraverso i racconti dei miei viaggi, da quando il problema era trovare un telefono per dettare il pezzo a oggi, quando puoi mandare immagini e testi ovunque in tempo reale. E sì, l’informazione è peggiorata, con la preminenza delle breaking news sull’approfondimento e la gara a dare la notizia per primi, a costo di non verificarla, e a darla in modo accattivante, perché sarà valutata in base ai clic che ottiene».

Pochi giorni fa un’altra strage di giornalisti.

«Sì, e l’accusa di essersela andata a cercare è particolarmente forte se rivolta ai palestinesi. Sono gli unici rimasti nella Striscia e quindi i soli a informare, anche per i media internazionali. E nonostante portino in evidenza i contrassegni “Press”, vengono bombardati e uccisi: gli israeliani non vogliono testimoni. L’informazione muore a Gaza».

Hai detto che l’incontro con le donne algerine ha cambiato il tuo punto di vista.

«A inizio anni Ottanta ero pervasa dal terzomondismo di sinistra: quel che era più lontano da noi era più autentico e rappresentativo. Poi le donne algerine mi hanno detto: non puoi cercare di essere più musulmana di noi, perché noi siamo musulmane ma siamo anche laiche, se sei interessata ad avere un rapporto con noi devi essere te stessa. Sembra una banalità ma è stato un insegnamento fondamentale per frequentare i Paesi musulmani. Ho intervistato diversi leader islamisti, anche radicali, ma non ho mai messo il velo, né me lo hanno chiesto: se decidevano di darmi un’intervista sapevano a chi la stavano dando. Invece tante giornaliste, quando fanno servizi da uno di quei Paesi, si velano anche se sono sul tetto di un grande albergo, o mettono le foto velate sulle copertine dei libri. Le donne di quei Paesi, quelle che lottano e rischiano la vita per togliersi il velo, mi hanno sempre detto che per loro è una grande offesa, una mancanza di solidarietà».

Hai visto le donne afgane levarsi il burqa.

«Sì, dopo l’intervento occidentale pensarono che fosse giunta l’ora. Fecero una manifestazione, nonostante gli americani l’avessero vietata: era impressionante come avessero la pelle del viso squamata. Non prendendo mai sole non sviluppavano la vitamina D».

“Il nibbio” ti è piaciuto?

«Penso sia molto utile per far conoscere Calipari, dopo il tentativo di fare il processo non se n’era più parlato. Io ho continuato a testimoniare e c’è uno spettacolo teatrale, “Il viaggio di Calipari”, che abbiamo portato in giro, ma quel che puoi ottenere è minimo rispetto all’impatto del film. Certo, è una fiction, e riconoscersi in una fiction è difficile. Ma quando mi hanno detto che non era la mia storia ma di Calipari mi sono concentrata sul finale: ora la volontà degli americani di spararci addosso non è ancora esplicita, ma si può interpretare così».

Hai voluto chiarire che quel check-point era mobile.

«Sì, non c’era assolutamente alcun posto di blocco né ci è arrivato alcun segnale di fermarci. Tra l’altro eravamo praticamente fermi, eravamo usciti da un sottopassaggio allagato. E non hanno sparato alle gomme: un proiettile ha colpito il motore, gli altri 57 sono stati sparati sui passeggeri. E infatti hanno colpito subito Calipari e hanno ferito anche me, nonostante lui mi avesse buttato giù e mi avesse coperto col suo corpo. Se non lo avesse fatto mi avrebbero sbriciolata».

Mai provato a scoprire che fine ha fatto Lozano dopo la vicenda giudiziaria?

«Ma lui problemi con la giustizia non ne ha avuti. La Procura aveva deciso che lo si poteva giudicare perché quello di Calipari, numero due della sicurezza italiana, era un omicidio politico. Poi però la Corte d’Assise ha escluso la competenza italiana in base alla “consuetudine dello zaino”, per la quale un militare risponde solo al Paese che gli ha rilasciato i documenti che ha con sé. Ricorremmo in Cassazione ma nel frattempo a Palazzo Chigi tornò Berlusconi: l’avvocato dello Stato spiegò con imbarazzo di avere l’indicazione di rimettersi a quel che avrebbe deciso il procuratore. E il procuratore decise che la consuetudine dello zaino non era sostenibile, ma Lozano aveva l’immunità funzionale perché rispondeva a degli ordini, e comunque non si poteva parlare di crimine di guerra perché c’era un solo morto».

Si è chiusa così.

«Si è chiusa con me condannata a pagare le spese processuali. Poi però fortunatamente quei soldi non me li hanno mai chiesti. Non so, forse si vergognavano».

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