L’intervista.

«È in crisi l’intera filiera: il nostro sistema di riutilizzo non garantisce la qualità» 

Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp

«Parlerei di una crisi ampiamente annunciata». Sulla filiera della plastica da riciclo a rischio paralisi, con il porta a porta in tilt, il professore è serafico. Mohamad El Mehtedi, ordinario di Ingegneria meccanica e gestionale all’Università di Cagliari, non ha dubbi e dapprima, su richiesta, lo spiega senza tecnicismi: «Sino a quando ai cittadini si dirà di buttare insieme le bottigliette dell’acqua, i tappi e i flaconi dello shampoo, che reagiscono al calore in maniera differente, non vedo via d’uscita».

Professore, qual è la differenza tra bottigliette d’acqua e tappi?

«Le prime sono fatte di polietilene tereftalato, un materiale termoplastico versatile. Vuol dire che, una volta riscaldato, può essere modellato all’infinito. Questa è la Pet, la plastica da riciclo appunto, quella leggera che dai Paesi extra Ue, in particolare dalla Cina, si può acquistare a prezzi stracciati ed è di ottima qualità. I tappi, invece, sono fatti di polipropilene, il Pp, più rigido: va riciclato in modo separato».

Cosa succede se Pet e Pp si riscaldano insieme?

«Il polipropilene rovina la qualità del polietilene. Ne impoverisce la purezza. Perché la Pet possa essere un prodotto di concorrenza con la plastica non europea, la quantità di Pp deve essere minima».

Succede?

«Questo non lo so. Posso dire che per i piatti compostabili la legge prevede una quota di additivi organici di origine non vegetale entro il 5%».

I piatti biodegradabili di cosa sono fatti?

«Sulla carta di Pla principalmente, ovvero acido polilattico che deriva dal mais. Si impiega anche la polpa di cellulosa, ricavata da canna da zucchero, bambù o paglia».

Per ritornare a Pet e Pp, ci sono Comuni, anche in Sardegna, dove i cittadini devono buttare la plastica rigida nel mastello dell’indifferenziato. In altri, invece, quel limite non esiste.

«Tutti dovremmo mettere nel mastello azzurro solo il Pet, perché rispetto al Pp ha un diverso punto di transizione vetrosa, ed evitare di mischiare questo tipo di imballaggi con la sigla “Plastica 7”, che è assolutamente non riciclabile (il codice si trova sul retro delle confezioni). Il polietilene è flessibile, pur essendo impermeabile, e ha un’ottima resistenza anche alla pressione interna. Il polipropilene, invece, si usa per applicazioni che richiedono rigidità e resistenza termica. Pensiamo a quando dobbiamo forare un tappo di plastica: utilizziamo un arnese rovente. Anche i contenitori per il forno a microonde sono realizzati con il Pp».

Con tutti i macchinari industriale che esistono oggi, anche solo per separare Pp e Pet, è possibile che una filiera vada in crisi?

«Certo, perché quello diventa un costo aziendale, inutile per un’impresa italiana o europea che lavora la plastica riciclata e può comprare la materia prima fuori dall’Ue a un costo inferiore, per di più vergine, come si dice in gergo».

La filiera della plastica nostrana è a un punto di non ritorno?

«Speriamo di no. In questi giorni abbiamo letto che Assorimap, l’associazione che raccoglie i riciclatori, chiede di fare una legge per introdurre l’obbligo di indicare negli imballaggi la quantità di plastica riciclata. È giusto, è un modo per difendere la qualità. Troppo spesso si vende come Pet un materiale dove la quantità di altre sostanze è elevata».

RIPRODUZIONE RISERVATA

Questo contenuto è riservato agli utenti abbonati

Per continuare a leggere abbonati o effettua l'accesso se sei già abbonato.

• Accedi agli articoli premium

• Sfoglia il quotidiano da tutti i dispositivi

Sei già abbonato?