Il comparto cerealicolo della Sardegna, con particolare riferimento alla produzione di grano duro, sta attraversando una trasformazione che, nei numeri, ha ormai assunto le dimensioni di un ridimensionamento strutturale.

Secondo i dati più recenti, la superficie destinata al grano duro è passata dai 97.108 ettari del 2003 agli appena 28.475 ettari stimati per il 2025.

Una contrazione del 70% in poco più di vent’anni, solo parzialmente compensata dall’incremento delle rese (da 15 a 27 quintali per ettaro). Il bilancio produttivo resta comunque negativo: il comparto non è oggi in grado di coprire neppure la domanda interna.

Le cause sono molteplici ma interconnesse: modifiche nella Pac, volatilità dei prezzi, concorrenza estera a basso costo, stagnazione degli investimenti infrastrutturali e impatto climatico crescente.

L’attuale configurazione del settore è il risultato di una progressiva perdita di marginalità economica per i produttori primari.

Il prezzo medio pagato al produttore si attesta tra i 26 e i 30 euro a quintale, livello considerato non remunerativo rispetto ai costi sostenuti (sementi, lavorazione, concimazione, raccolta). Secondo gli operatori, si tratta di una soglia che non garantisce la sostenibilità economica delle imprese, specie per chi opera fuori dai contratti di filiera.

L’aggravante è che questo pricing si inserisce in un contesto dominato dalla volatilità internazionale, spesso determinata da logiche speculative.

Come evidenziato da Confagricoltura, la finanziarizzazione del commercio globale del grano (con prezzi definiti non all’origine ma durante la navigazione delle navi cargo) genera una distorsione sistemica del mercato.

Le oscillazioni subite da un carico in viaggio tra il Nord America e un porto europeo si riflettono direttamente sulla catena del valore, comprimendo ulteriormente il margine per il produttore locale.

Il grano duro sardo presenta caratteristiche qualitative elevate, anche grazie alla bassa presenza di micotossine e alla selezione varietale operata da decenni. Tuttavia, l’assenza di una strategia efficace di valorizzazione industriale e commerciale delle filiere corte impedisce di capitalizzare questi vantaggi.

Il rischio concreto, come segnalato da diversi agricoltori e analisti locali, è che la qualità resti confinata in una dimensione non riconosciuta dal mercato, se non supportata da una promozione coerente e da contratti che tutelino il valore lungo la filiera.

Di «comparto che galleggia e che negli ultimi anni si è spostato sempre al ribasso in una direzione che porterà al solo collasso della cerealicoltura regionale», ha parlato Paolo Canargiu, agricoltore e allevatore di San Gavino Monreale che ha sollevato appunto il tema della valorizzazione delle sementi locali e della «necessità di investire su programmi di filiera che partano dalla prima fase della coltivazione: da quel grano da seme sardo che conserva ancora livelli di straordinaria eccellenza e che andrebbe tutelato e migliorato con la ricerca scientifica, così da assicurare a chi coltiva una base di partenza superiore rispetto ai competitori globali».

Proprio sul piano della ricerca scientifica, del miglioramento delle produzioni, del conseguente adattamento alla crisi climatica e dell’analisi d’insieme del comparto si occupa l’Agenzia regionale Agris Sardegna che, attraverso i suoi studiosi, ha intrapreso anche attività sulla valorizzazione genetica delle tipicità locali del grano e sul miglioramento delle tecniche colturali.

«La tendenza in atto – ha osservato Marco Dettori, Direttore del Servizio per la ricerca sui sistemi colturali erbacei di Agris – conferma la progressiva riduzione delle superfici coltivate e, conseguentemente, delle produzioni, solo parzialmente compensate dall’incremento delle rese. I raccolti non riescono pertanto a soddisfare neanche la domanda interna di grano duro.

Le cause di tale condizione sono legate a diverse variabili: la scarsa remuneratività di questa coltura dovuta a prezzi bassi e volatili della granella; l’aumento del costo delle materie prime (gasolio, concimi e diserbanti); condizioni meteo-climatiche fortemente aleatorie, legate sicuramente alle condizioni di cambiamento climatico, che determinano periodi di siccità prolungata alternati a precipitazioni spesso intense e incremento della frequenza e della durata di ondate di calore durante le operazioni di preparazione alla semina e nel corso del ciclo colturale». 

(Unioneonline)

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