#Tuttineparlano: Saviano e i "boss bambini" della Napoli 2.0
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Forcella, Napoli: Nicolas Fiorillo, detto Maraja, non ha ancora sedici anni e vuole prendersi tutto. Ed è disposto a tutto. Per raggiungere i suoi scopi raduna un gruppo di "gangster in miniatura", tutti poco più che bambini e ognuno ribattezzato con un singolare epiteto: Tucano, Drago’, Dentino, Drone, Stavodicendo, Biscottino, Lollipop, Briato’.
È questa la sua paranza (termine che indica un gruppo di fuoco affiliato alla Camorra), con la quale dà il via alla sua ascesa criminale dedicandosi prima allo spaccio, poi ai ricatti, infine uccidendo chi gli mette i bastoni tra le ruote. In breve diventa un boss, con la vita segnata dalla violenza e dal sangue senza aver raggiunto neppure la maggiore età.
La paranza dei bambini (Feltrinelli, 2016, Euro 18,50, pp. 352), primo romanzo "puro" di Roberto Saviano, prende spunto da fatti reali di cronaca per tracciare un ritratto della Camorra del Terzo Millennio. Una Camorra 2.0 costituita da adolescenti impregnati dai miti e dalle leggende sulle gesta efferate dei camorristi antichi ma allo stesso tempo cresciuti nel culto della violenza giocando ai videogame e guardando le serie tv americane. Ragazzi che non sono per forza figli della povertà e dell’emarginazione come avveniva un tempo con le affiliazioni camorristiche. Si tratta piuttosto dei nuovi rampolli della piccola e media borghesia, ragazzi comuni, senza particolari tratti distintivi, se non quelli che ne giustificano i pittoreschi nomignoli: «Non sono mostri, non sono esseri marci, sono ragazzi a volte addirittura geniali, con famiglie normali. Sono ragazzi che vivono in un mondo che bara continuamente, che parla di merito laddove c'è privilegio, di impegno laddove c'è soltanto truffa, sotterfugio» dice proprio Saviano.
Sono quindi giovani abituati a percepire la camorra come qualcosa di naturale, quotidiana come una conversazione su Whatsapp con la fidanzatina, necessaria come la legge del più forte, unico imperativo realmente vincolante in un mondo diviso tra "fottuti" e "fottitori". Questo li abitua a compiere le azioni più brutali, gli atti più abietti con totale nonchalance, senza mai avvertire il desiderio di una riflessione ulteriore, di un'analisi che vada al di là della realtà in cui sono immersi. Compiere il male è facile, sembrerebbe dire l’autore, quando si è integralmente disciolti in un continuum; quando ogni parametro etico o umano è stato svuotato di significato. Allora, in un mondo in cui uccidere un uomo nella realtà non ha un peso specifico diverso dal farlo in un videogioco, l’unica cosa che conta è arrivare in cima e riuscire a farlo nel modo più veloce possibile. La vita umana ha lo stesso valore di un kebab consumato in fretta in un chiosco per strada e se non si riesce a viverla comandando, tanto vale bruciarsela.
Saviano ha, insomma, le idee chiare sull’umanità - o disumanità - che vuole rappresentare e il romanzo si mostra coerente per sviluppo e realizzazione. La scrittura lavora per sottrazione, espungendo ogni elemento non necessario, lasciando al lettore solo l’evento, la situazione nella sua crudezza. Obiettivo dell’autore è una mimesi pressoché totale con la realtà, seppur inserita in un contesto di finzione narrativa: per arrivare a questa Saviano si concentra, in primo luogo, sulla resa linguistica dei suoi protagonisti e tenta di restituire un dialetto funzionale, forse non etimologicamente corretto ma dalle sonorità estremamente vicine a quella che potrebbe essere al giorno d’oggi la vulgata, imbastardita, di un simile gruppo di ragazzi.
Il linguaggio diventa allora mezzo fondamentale per comprendere la psicologia della paranza. Per Nicolas, infatti, o si è infami o si ha cazzimma, o si è predatori o si è prede, o si sta sopra o si sta sotto, o si "spaccano i ciessi" e "adda murì mammà" o si rimane nel fango. Non esistono sfumature, né prezzi eccessivi da pagare. Non c’è pensiero, riflessione, esame di coscienza e crescita personale: ci sono solo fatti, nudi, crudi. Anzi crudeli.
Roberto Roveda