Non è una moda né un gesto impulsivo. Il “no contact” – l’interruzione dei rapporti con la famiglia d’origine – è una scelta sempre più raccontata e discussa, soprattutto nei periodi di festa. Significa non vedere e non sentire uno o entrambi i genitori, anche a Natale, Pasqua, compleanni o anniversari.

Nessuna telefonata, nessun messaggio, nessun invito accettato “perché è solo una volta l’anno”.

Per molte persone questa decisione nasce dal bisogno di prendere distanza da relazioni vissute come tossiche o invalidanti, segnate da controllo, ricatti emotivi, manipolazioni o violenza psicologica.

Le festività natalizie, con il loro carico di aspettative e l’idea che la felicità sia obbligatoria, diventano spesso il punto di rottura: il momento in cui continuare a interpretare il ruolo del figlio “a posto” viene percepito come troppo costoso sul piano della salute mentale.

Negli ultimi anni il fenomeno è diventato visibile anche online.

Sui social, cercando l’hashtag #nocontact, emergono centinaia di testimonianze. Non si tratta solo di situazioni estreme, ma di esperienze quotidiane, fatte di piccole umiliazioni ripetute e di un logoramento emotivo costante.

C’è chi racconta che, dopo aver smesso di parlare con i genitori, il primo beneficio è stato fisico.

Chi scopre che il problema non era il Natale in sé, ma il contesto familiare in cui era costretto a viverlo.

Dietro questi racconti ci sono quasi sempre anni di tentativi di sistemare il rapporto, allontanamenti seguiti da riavvicinamenti, sensi di colpa persistenti e paura del giudizio esterno.

Un punto torna spesso: se si interrompe una relazione sentimentale tossica, la scelta viene socialmente approvata; se si prende distanza da un genitore manipolatore, si viene facilmente etichettati come figli ingrati.

Il giudizio sociale resta uno degli elementi più pesanti, perché interrompere il legame con chi ti ha messo al mondo continua a essere percepito come qualcosa di “innaturale”, anche quando è l’unica strategia per reggere emotivamente.

Raramente il no contact è frutto di uno scatto improvviso. Più spesso è l’esito di un percorso lungo, iniziato nell’infanzia e proseguito nell’adolescenza, fino a una vita adulta segnata da dinamiche che si ripetono senza cambiamenti reali: svalutazioni, controllo, sbalzi d’umore.

Anche da adulti, oltre i trent’anni, molti raccontano di essere trattati come bambini, senza riconoscimento dell’autonomia personale.

Prima dello strappo definitivo, quasi sempre si prova a spiegare il proprio disagio: una telefonata in cui si dice “non ti odio, ma non ce la faccio più”, un messaggio in cui si elencano comportamenti dolorosi, nel tentativo di salvare almeno una parte del legame.

Il nodo centrale diventa allora la sostenibilità del rapporto. Non solo nella quotidianità, ma anche in occasioni simboliche come una cena di Natale.

Quando il contatto con la famiglia condiziona pesantemente la vita, emergono spesso dinamiche di violenza psicologica, ricatti emotivi continui e controllo invasivo.

Con un partner o un amico, queste condizioni renderebbero la scelta di allontanarsi quasi automatica. Con un genitore, invece, entra in gioco un forte senso di obbligo morale che può bloccare le persone per anni.

Secondo diversi psicoterapeuti che lavorano con le famiglie, il no contact riguarda soprattutto i giovani adulti: persone abbastanza grandi da vivere in autonomia, ma ancora profondamente immerse nelle aspettative genitoriali.

Le feste amplificano tutto. Le riunioni forzate, le domande su lavoro, relazioni e figli, i confronti con fratelli o cugini considerati “più sistemati”. Per molti non è un momento di condivisione, ma una prova da superare.

Gli specialisti sottolineano che la famiglia è anche il primo luogo del conflitto, uno spazio in cui si impara a mettere limiti e a dire no. Evitare ogni confronto non favorisce la crescita e, quando possibile, un dialogo autentico andrebbe tentato. Ma quando il confronto è sistematicamente negato o manipolato, la distanza diventa una forma di tutela personale.

Il no contact resta una scelta dolorosa, sia per chi si allontana sia per chi resta escluso. Ma la sua crescente presenza nel dibattito pubblico, soprattutto a ridosso del Natale, segnala un cambiamento culturale: l’idea che il benessere psicologico possa, in alcuni casi, avere la precedenza sul mantenimento formale dei legami familiari.

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